Diabete di tipo 1, in certi casi diagnosi errata risolvibile solo con screening genetico

Circa un terzo delle persone diagnosticate come affette da diabete di tipo 1 da oltre 50 anni continua a mantenere una produzione rilevabile di peptide-C, mentre una piccola percentuale ha una forma diversa di diabete che potrebbe consentire loro di eliminare completamente la terapia insulinica. È quanto emerge dai nuovi risultati del Joslin Medalist Study appena pubblicati sul Journal of Clinical Investigation.

«Gli esiti di questo studio clinico prospettico, genetico e patologico mostrano chiaramente che la maggior parte delle persone con diabete di tipo 1 mantiene cellule beta insulino-positive e che molti di essi sono ancora in grado di rispondere agli stimoli metabolici anche dopo 50 anni di diabete di tipo 1» hanno scritto Marc Gregory Yu del Joslin Diabetes Center e della Harvard Medical School di Boston, in Massachusetts e colleghi.

I risultati suggeriscono che alcuni dei partecipanti potrebbero avere ricevuto erroneamente una diagnosi di diabete di tipo 1 piuttosto che di una forma di diabete monogenico, e che un piccolo numero di pazienti potrebbe essere in grado di interrompere l’assunzione di insulina e passare a un farmaco ipoglicemizzante per via orale, hanno fatto notare gli autori.

«Gli individui con un alto livello di peptide-C nonostante un diabete di tipo 1 di lunga data, possono trarre beneficio dalla valutazione dell’allele antigene leucocitario umano (HLA) e dallo screening monogenico del diabete, poiché possono aiutare a guidare il percorso terapeutico più appropriato» hanno aggiunto. «Soprattutto lo screening monogenico del diabete può portare benefici nei soggetti con diabete di tipo 1 da molti anni, indipendentemente dai livelli sierici di peptide-C».

«Sarebbe un risultato notevole se l’identificazione di varianti genetiche nei geni monogenici del diabete consentisse a una sottopopolazione di pazienti di abbandonare l’insulina e passare a un farmaco orale» hanno scritto In un editoriale di accompagnamento, Fabrizio Barbettidell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù IRCCS di Roma e Simeon Taylor della University of Maryland School of Medicine a Baltimora.

Risultati eterogenei nella nuova analisi
I ricercatori hanno esaminato 1019 partecipanti al Joslin Medalist Study, di cui poco più della metà erano donne (55%), avevano un’età media di 65 anni alla prima visita, un’età media di 11 anni alla diagnosi di diabete di tipo 1 e una durata mediana della malattia di 53 anni.

Sono stati tutti valutati per i geni monogenici del diabete che possono influire sulla funzione delle cellule beta e sono stati sottoposti ad altri test come l’analisi HLA, lo status anticorpale e la funzionalità delle cellule beta sia con test di tolleranza del pasto misto (MMTT, mixed-meal tolerance test) sia tramite il clamp iperglicemico con successiva stimolazione con arginina, nonché il test del peptide-C.

Nel 43,6% dei soggetti è stata riscontrata la positività per gli autoanticorpi e nel 32,4% livelli rilevabili del peptide-C (>0,05 ng/ml) (mediana 0,21 ng/ml).

Tra i 516 partecipanti che hanno subito un MMTT ha risposto il 5,8%, con un livello mediano di 0,35 ng/ml, definendo la risposta come almeno un raddoppio dei livelli basali di peptide-C. Tuttavia, la presenza o l’assenza di una risposta del peptide-C non era associata a caratteristiche cliniche come l’HbA1c o la prevalenza di complicanze legate al diabete.

Tra i 181 soggetti che sono stati sottoposti a un secondo MMTT dopo una mediana di 4,1 anni, il 60% è passato dall’avere livelli basali rilevabili di peptide-C a livelli non rilevabili, mentre il 9% di quanti avevano livelli basali non rilevabili hanno aumentato il peptide-C a un livello rilevabile.

E dei 30 partecipanti con livelli di peptide-C rilevabili al basale che hanno subito la procedura di clampaggio, il 46,7% ha mostrato una risposta, sempre definita come almeno un raddoppio del peptide-C al basale. Avevano maggiori probabilità di rispondere i soggetti negativi per gli autoanticorpi per il diabete di tipo 1.

Cellula beta sopravvissute
Un risultato che, secondo Barbetti e Taylor, indica che «alcuni pazienti erano ancora in grado di rispondere agli stimoli metabolici nonostante la dipendenza insulinica a lungo termine». Gli stessi autori dello studio hanno sottolineato la possibilità che il piccolo numero residuo di cellule beta funzionanti che erano sopravvissute all’attacco autoimmunitario potesse in qualche modo essere “ringiovanito”, con la speranza di ripristinare la secrezione di insulina anche dopo decenni di diabete di tipo 1.

Anche l’analisi post-mortem del pancreas dei partecipanti deceduti ha dimostrato che «nonostante più di 50 anni di attacco autoimmune, mediante immunoistopatologia in tutti i 68 pazienti sono state rilevate cellule beta positive all’insulina» hanno aggiunto.

Chi valutare per il diabete monogenico
Alla luce dei risultati dello studio, Barbetti e Taylor ritengono «probabile che lo screening genetico sia utile nei pazienti che sono negativi per gli alleli di rischio HLA e che bisognerebbe sospettare una possibile diagnosi di diabete monogenico nei pazienti con diabete di tipo 1 con livelli di peptide-C rilevabili durante il digiuno e che aumentano dopo un MMTT».

«Nonostante questi pazienti abbiano fatto bene a usare l’insulina per più di 50 anni, si tratta comunque di un approccio terapeutico che richiede uno sforzo considerevole. Pertanto, quando è possibile ottenere un buon controllo metabolico con una sulfonilurea, i pazienti con diabete monogenico tendono ad accogliere molto favorevolmente la possibilità di passare a un farmaco orale» hanno concluso.
  
Bibliografia

Yu MG et al. Residual β cell function and monogenic variants in long-duration type 1 diabetes patients. J Clin Invest. 2019 Jul 2;130. 

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da PHARMASTAR