Le insidiose trappole dell’igiene
Meno germi, più allergie. Ora questa ipotesi si estende al diabete e ai tumori.
L’«ipotesi igienica» non è più una curiosità come sembrava quando fu proposta, alla fine degli Anni Ottanta, dall’epidemiologo britannico David Strachan, che attribuiva alla minore esposizione ai germi durante l’infanzia l’aumento delle malattie allergiche nei Paesi più ricchi.
A conferma della sua teoria diversi studi mostravano come la probabilità di soffrire di eczema, raffreddore da fieno, o asma era più bassa tra chi aveva molti fratelli, aveva frequentato l’asilo nido fin dai primi mesi di vita, o comunque, vivendo in contesti socioeconomici più sfavorevoli, aveva contratto l’epatite A, la salmonellosi o altre malattie che si trasmettono in condizioni igieniche inadeguate.
«Oggi a queste prove indirette si sono aggiunti esperimenti di laboratorio e studi su modelli animali — spiega Paolo Maria Matricardi, che attualmente è senior scientist presso il Dipartimento di pneumologia e immunologia pediatrica dell’Università di medicina Charité di Berlino —.
Esaminando l’incidenza di allergia nei militari, per esempio, abbiamo dimostrato che l’effetto protettivo, più che dalle infezioni respiratorie, che anzi possono innescare l’asma, viene da germi trasmessi da mani poco pulite e da cibi contaminati».
L’ipotesi igienica si è intanto estesa: le difese dell’organismo umano, non dovendosi cimentare con le molteplici infezioni cui è stato esposto per millenni, si rivolgerebbero non solo contro elementi di per sé innocui, come nelle malattie allergiche, ma anche verso tessuti e organi propri, scatenando malattie autoimmuni, come il diabete, la sclerosi multipla o il morbo di Crohn.
Per studiare l’applicazione della teoria igienica al diabete di tipo 1 l’Unione europea ha stanziato 6 milioni di euro. Si è osservato, infatti, che in Finlandia il diabete è 6 volte più comune che in Russia e che in alcune regioni della Russia sono più frequenti le infezioni intestinali: il progetto Diabimmune, dovrà stabilire, indagando su 7 mila bambini, se c’è un legame tra queste due circostanze.
La linea di ricerca più innovativa e di cui si è finora meno sentito parlare, però, è quella che riguarda i tumori, perché anche la loro genesi è tenuta sotto controllo dal sistema immunitario. Si è partiti dall’osservazione che i bambini inseriti al nido nei primi mesi di vita hanno un rischio ridotto di ammalarsi di leucemia infantile, o di sviluppare da grandi il linfoma di Hodgkin, tumore del sistema linfatico che è meno frequente anche nei giovani con più fratelli maggiori.
«Anche le difese immunitarie contro i tumori vengono attivate dal contatto con i germi, soprattutto dalle componenti di alcuni batteri, chiamate endotossine, — spiega il professor Giuseppe Mastrangelo, del Dipartimento di medicina ambientale e sanità pubblica dell’Università di Padova — con cui vengono particolarmente a contatto alcune categorie professionali, come gli allevatori e i lavoratori dei cotonifici».
«Chi lavora nelle stalle, per esempio, ha cinque volte meno probabilità di avere un cancro al polmone rispetto ai contadini che non allevano animali — prosegue l’epidemiologo padovano — .
Il rischio diminuisce quante più sono le mucche da accudire e torna ad aumentare col tempo se gli allevatori cambiano lavoro. In maniera analoga, le addette alla lavorazione del cotone sembrano protette, oltre che nei confronti del tumore al polmone, anche verso il tumore al seno, al fegato, allo stomaco, al pancreas. E pure in questo caso l’effetto protettivo è tanto maggiore quanto più intenso e lungo è stato il contatto con l’endotossina, presente nella polvere di cotone, così come nel letame».
di Roberta Villa
Corriere Salute