ADA 2008 San Francisco
Dopo l’intenso Congresso nazionale della Società italiana di Diabetologia, tenutosi a Torino a fine maggio, pochi giorni dopo ho avuto occasione di partecipare al 68° Congresso annuale dell’ American Diabetes Association (ADA) a San Francisco, California (USA). La vastità dell’evento, la numerosità dei temi trattati, l’interesse della comunità scientifica internazionale alla presentazione di alcuni trial clinici richiederebbero pagine e pagine: nella consapevolezza di dover operare scelte selettive e personali, cercherò di riferirvi alcuni degli argomenti più coinvolgenti per il nostro comune interesse. Iniziamo con lo studio ADVANCE ( Action in Diabetes and Vascular Disease: Preterax and Diamicron MR Controlled Evaluation , braccio glicemico) che ha dimostrato come una strategia di controllo glicemico intensivo (HbA1c <6,5% in diabetici tipo 2) sia in grado di ridurre del 10 per cento il rischio di complicanze micro- e macrovascolari ( outcome primario combinato). In realtà, osservando i dati dello studio, si rileva come tale diminuzione sia prevalentemente legata alla significativa riduzione delle complicazioni renali (-21 per cento di nuove nefropatie o di loro peggioramento), senza chiara evidenza di modificazioni del rischio per la retinopatia. Anche per gli eventi combinati macrovascolari (infarto miocardico non fatale, ictus cerebrale non fatale o morte cardiovascolare) si è osservata una tendenza alla diminuzione, peraltro non significativa. Si è enfatizzato il fatto che (a differenza di altri studi) un trattamento ipoglicemizzante intensivo non aumenti il rischio di mortalità cardiovascolare o per tutte le cause . Come atteso, però, il trattamento intensivo aumenta il rischio di ipoglicemie gravi , pur se la loro frequenza è risultata bassa (circa 0,7 eventi per 100 pazienti/anno, rispetto agli 0,4 eventi nel gruppo di controllo). Solo un approccio multifattoriale (controllo pressorio, trattamento ipolipemizzante e antiaggregante piastrinico) si conferma la strategia vincente per ridurre le complicazioni macroangiopatiche. Argomento “intrigante” è quello della correlazione tra malattia periodontale e diabete : l’igiene orale è importante anche per altre patologie, ma spesso non ci si rende conto di quale impressionante serbatoio di infezioni e infiammazione si nasconda in una bocca con parodontopatia. Anche una “banale” gengivite può scatenare reazioni flogistiche in tutto il resto del corpo: mantenere il cavo orale sano significa contribuire alla salute di tutto l’organismo. Molti diabetici non riflettono abbastanza sul fatto che uno scompenso glicemico possa determinare malattia periodontale e carie che, se non curate adeguatamente, portano a perdita di denti; ma le malattie del cavo orale sono anche fattore di rischio per altre complicazioni croniche del diabete , come le malattie cardiovascolari e la nefropatia. Anche l’insulinoresistenza e il rischio di peggioramento del compenso glicemico si correlano con la periodontopatia, come pure l’evolutività delle complicazioni metaboliche, per cui appare sempre più importante l’opera degli educatori sanitari in un campo ancora negletto, quale quello della corretta igiene dentale. Un interessante simposio ha affrontato il tema delle anormalità delle lipoproteine quali fattori determinanti l’aumento della morbilità e mortalità cardiovascolare nei soggetti diabetici . Se, da un lato, la concentrazione di colesterolo-LDL può non risultare più elevata nei diabetici rispetto ai non diabetici, le modificazioni delle stesse particelle LDL (composizione e grandezza, potenziale ossidazione o glicazione) le rendono più aterogene, unitamente alle altre caratteristiche della dislipidemia più comune nei diabetici (elevati livelli di trigliceridi e basse concentrazioni di colesterolo-HDL). Nei casi di ipertrigliceridemia risulta utile riferirsi al colesterolo non-HDL (calcolabile semplicemente sottraendo alla colesterolemia totale il valore di HDL): questo è un forte predittore indipendente di malattia cardiovascolare che si correla significativamente con le lipoproteine aterogene contenenti Apo-B , quali LDL, VLDL, IDL e Lp(a). Il colesterolo non-HDL include lipoproteine ricche di trigliceridi che trasportano anche colesterolo e viene proposto quando non sia possibile dosare specificamente le Apo-B, con il suggerimento che venga valutato anche nel periodo post-prandiale. Durante questo simposio è stato premiato Scott Grundy , direttore del Centro di Nutrizione umana, presidente del Dipartimento di Nutrizione clinica e professore di Medicina interna dell’Università di Dallas, Texas, che ha tenuto una relazione dal titolo significativo: “Oltre l’LDL” . Grundy ha sottolineato come l’aterosclerosi si sviluppi gradualmente e differenti fattori agiscono in epoca diversa, ma le lipoproteine contenenti Apo-B sono sempre coinvolte: nell’inizio, nella progressione e nella rottura delle placche aterosclerotiche. L’ipertensione arteriosa determina una rapida progressione dell’aterosclerosi, così come uno stato pro-infiammatorio predispone all’instabilità della placca, mentre uno stato protrombotico stimola la trombosi e peggiora le sindromi cardiovascolari acute. Il ruolo dell’iperglicemia è ancora poco chiaro, per cui sono necessarie ulteriori e più approfondite ricerche. Un altro stimolante simposio ha fatto il punto sulla possibilità di generare cellule pancreatiche endocrine mature a partire da cellule umane embrionali a scopo terapeutico per i pazienti diabetici. Studi recenti hanno dimostrato (in topi) che cellule pancreatiche endodermiche derivate da cellule staminali embrionali umane (hES) sono in grado di generare risposte endocrine dopo stimolo con glucosio. Queste hES sono peculiari per capacità di proliferazione e differenziazione: risultano quindi particolarmente utili nella strategia di trattamento cellulare sostitutivo per patologie degenerative. Per il diabete è stata studiata la possibilità di indurre differenziazione delle cellule hES in senso endocrino pancreatico, con successivo impianto in topi immuno-compromessi (per evitare risposta di rigetto): la stimolazione in vivo di glucosio ha determinato la produzione di insulina e C-peptide. La caratterizzazione tipo beta-cellulare di tali cellule impiantate è risultata ancor più evidente dalla capacità di produrre fattori di trascrizione tipici delle beta-cellule e dalla presenza istochimica di granuli di secrezione. Inoltre l’impianto di queste cellule ha protetto gli animali dal diabete indotto da streptozotocina, per cui è corretto definire tali cellule come “cellule insulino-secernenti”. Un altro modello per giungere a generare cellule endocrine pancreatiche è quello di derivarle da Drosophila : nel processo evoluzionistico, infatti, alcuni geni specifici regolano le capacità di differenziazione. Gli studiosi pensano di aver identificato un network “tipo isola pancreatica” proprio in Drosophila , nella quale cellule con funzioni alfa e beta pancreatiche fanno parte di un asse endocrino-cerebrale . Studiando tale network si è scoperto il processo evoluzionistico che mette in relazione le cellule insulari pancreatiche con l’asse ipotalamo-ipofisario. Il passaggio all’uomo è un salto stimolante, in itinere , e la comprensione (almeno nell’insetto) di questo complesso network sta gettando nuova luce sui processi di regolazione neuro-endocrina dei vertebrati. Uno sguardo ai recettori del gusto e alla loro capacità di orientare il comportamento umano : questi sono gli argomenti che hanno stimolato le ricerche di Charles Zucker (Università della California San Diego). Per il genere umano il gusto contribuisce, infatti, all’appagamento e al piacere dopo un pasto; in altre specie animali il gusto è in grado di mediare comportamenti “innati” (attrazione o repulsione per specifici alimenti). Le cellule recettoriali sono l’unità base di questa “organizzazione” del gusto: situate nella lingua con specifiche funzioni (riconoscimento del dolce, del salato, dell’amaro, del basico e dell’acido), sono localizzate in aree anatomicamente precise. Studi di elettro-neuro-fisiologia hanno confermato specifiche connessioni encefaliche, permettendo di “mappare” determinate aree della corteccia cerebrale. Alcuni comportamenti di “aggressione / attrazione” si correlano proprio con tali aree corticali, e la somministrazione di pasti con gusti misti scatena risposte cerebrali complesse. Il futuro passaggio a una migliore comprensione del comportamento umano nei confronti di alcune categorie di alimenti potrà forse permettere di individuare farmaci in grado di interagire con le risposte corticali per modulare comportamenti alimentari impropri. Oltre agli studi ADVANCE (che ha evidenziato il non aumento del rischio di mortalità nei pazienti in trattamento intensivo) e ACCORD (fermato precocemente per aumento di mortalità nel braccio a trattamento ipoglicemizzante intensivo), a S. Francisco sono stati presentati anche i risultati dello studio Veteran Administration Diabetes Trial ( VADT ), che ha valutato l’impatto del controllo glicemico sugli esiti cardiovascolari. Gli studiosi hanno sottolineato i limiti dello studio VADT: i circa 1.700 partecipanti erano principalmente uomini di età avanzata, ad alto rischio, tutti diabetici tipo 2 precedentemente non ben controllati dalla terapia insulinica o ipoglicemizzante orale. Questi pazienti, randomizzati in un braccio a controllo glicemico più aggressivo (con HbA1c finale media di 6,9%, rispetto al gruppo di controllo che ha mantenuto una HbA1c media di 8,4%), non hanno però mostrato un effetto significativo sull’ endpoint cardiovascolare composito (infarto miocardico, morte cardiovascolare, ictus cerebrale, scompenso cardiaco, amputazione per arteriopatia periferica o chirurgia per malattia coronarica, vasculopatia periferica o ischemia critica arti inferiori). D’altro canto, proprio un esteso utilizzo del rosiglitazone (lo studio era supportato dal produttore del farmaco) ha permesso di comprendere come non vi siano stati rischi maggiori di infarto miocardico o morte cardiovascolare in soggetti trattati con questo glitazonico. Ciò che ha colpito maggiormente l’assemblea, però, è stata la precisa e puntuale presentazione dei metodi statistici utilizzati per analizzare i dati del trial: numeri, medie, intervalli di confidenza, parametri di significatività statistica tutto riportato con assoluta precisione “a memoria” da Thomas Moritz, che è un veterano non vedente ed è stato salutato con un’autentica ovazione dalla platea! Aula stracolma per il simposio presieduto da Harold Leibovitz sui nuovi farmaci ipoglicemizzanti in via di avanzata sperimentazione e probabilmente disponibili nei prossimi anni Ma andiamo con ordine: gli inibitori del cotrasportatore tipo 2 sodio-glucosio (SGLT-2) riducono la glicemia aumentando l’escrezione urinaria del glucosio. Questi farmaci bloccano la capacità del rene di riassorbire il glucosio che, quindi, viene eliminato con le urine in maggior quantità. Gli studi sono in fase 3 e hanno utilizzato la tecnologia Anti Sense Oligonucleotide (ASO) per bloccare l’attività di SGLT-2. Una seconda categoria di farmaci è quella degli attivatori della glucokinasi (GK): la GK fa parte della famiglia delle esokinasi. L’isoforma 4 è presente nelle beta-cellule e nel fegato e aiuta l’organismo ad utilizzare il glucosio; una sua carenza determina una minor secrezione insulinica. La GK4 non viene inibita dalla glucosio-6-fosfatasi ed è regolata dall’insulina: si comporta come un vero e proprio sensore del glucosio, indirizzandone il metabolismo verso la sua forma fosforilata (G6P). Gli attivatori della GK “facilitano” la secrezione di insulina da parte delle beta-cellule e permettono un miglior utilizzo del glucosio da parte del fegato. Gli antagonisti del recettore del glucagone sono la terza “famiglia” di farmaci in studio: bloccano l’effetto iperglicemizzante dovuto all’inappropriata maggiore presenza di glucagone nei pazienti diabetici tipo 2 (studi di fase 1 e 2). Oltre all’utilizzo di anticorpi monoclonali anti-glucagone, si sono utilizzate metodiche ASO o lo sviluppo di molecole con specifica attività antagonista recettoriale. Le sirtuine (ultimo gruppo dei nuovi agenti in fase di sviluppo) hanno interessato gli studiosi per la loro capacità di prolungare la vita degli animali da esperimento, migliorandone il metabolismo. Proprio un ingrediente del vino rosso, il resveratrolo , è ritenuto la chiave della longevità: esso attiva le sirtuine migliorando la tolleranza ai glucidi e riducendo la velocità di progressione dell’aterosclerosi (nei topi). Gli studi, oggi, si orientano verso i Sirtuin 1 Activators ( STAC1 ) che hanno una potenza 1.000 volte maggiore rispetto al resveratrolo. Il punto focale del congresso è stato, come ogni anno, il discorso di indirizzo di John Buse , presidente dell’ American Diabetes Association, che ha descritto i progressi scientifici compiuti dalla diabetologia negli ultimi 50 anni, grazie ai quali il diabete è stato trasformato da malattia causa di precoce disabilità e morte a condizione complessa da gestire, ma con una buona prognosi. Gli sforzi per tenere sotto controllo l’HbA1c, la pressione arteriosa, i lipidi e gli altri fattori di rischio hanno contribuito a migliorare la qualità di vita dei malati di diabete. L’implementazione delle linee guida, la crescente attenzione pubblica al problema, l’adozione di programmi di disease management , la maggior qualità dei programmi di educazione sanitaria, i nuovi farmaci Tutto quanto ha contribuito al miglioramento qualitativo osservato negli ultimi anni. Come esempio, Buse ha citato la diminuzione dell’incidenza di insufficienza renale terminale nei diabetici, che dal 1984 al 1995 era cresciuta dell’86 per cento, per poi diminuire del 25 per cento nei sette anni successivi. La mission rimane, comunque, quella di prevenire e curare il diabete per migliorare la qualità di vita di tutti i pazienti che ne sono affetti. La relazione del presidente ha introdotto l’assegnazione dell’annuale “Medaglia Banting” , conferita a Ralph DeFronzo che – ricordiamo – era stato ospite d’onore proprio al Congresso nazionale della SID di Torino. DeFronzo, molto commosso, ha parlato di fronte a più di 6.000 congressisti proponendo un nuovo paradigma (basato sul concetto di contrastare la patogenesi della malattia) per il trattamento del diabete mellito tipo 2. Tale proposta è differente rispetto alle linee guida dell’ADA e dell’ European Association for the Study of Diabetes (EASD), ma è stato approvato (proprio dall’ADA) un fondo economico per permettere di sviluppare studi clinici di confronto tra le due proposte. Il cambiamento dello stile di vita rimane il cardine della terapia in entrambi gli algoritmi, ma DeFronzo propone una triplice combinazione farmacologica (basata su tiazolidinedione, metformina ed exenatide ) quale terapia precoce per correggere proprio i meccanismi patogenetici che sono alla base del diabete tipo 2, al fine di portare i livelli di HbA1c a valori di normalità (meno del 6%). Ricordiamo che le indicazioni ADA-EASD parlano di obiettivo <7% iniziando un trattamento precoce con metformina, mentre le associazioni farmacologiche successive vengono introdotte solo se non vi è beneficio terapeutico. DeFronzo ha basato le sue proposte sul lavoro pluriennale del suo gruppo che ha contribuito a far luce sul fatto che, al momento della diagnosi, un soggetto diabetico ha perso circa l’80 per cento della sua funzione beta-cellulare (un soggetto con intolleranza ai glucidi ha circa il 50 per cento di funzione residua): il medico deve intervenire prima che sia troppo tardi, cercando di preservare l’attività delle beta-cellule. I farmaci più prescritti al mondo per curare il diabete (sulfaniluree e metformina) non hanno effetti protettivi significativi sulle cellule beta pancreatiche: solo i glitazonici, a tutt’oggi, hanno dimostrato in maniera significativa di preservare la funzione beta-cellulare, per quanto vi siano evidenze sempre maggiori di una simile attività anche da parte di exenatide (per ora unico analogo del GLP-1 in commercio). Associare questi due farmaci alla metformina, che è in grado di ridurre l’insulino-resistenza, permette di avere un miglior controllo dell’HbA1c. Alla fine della sua lettura, DeFronzo ha preso in giro la sua stessa proposta: «Ciò che è nuovo non è ovviamente provato; ciò che è stato provato non è più nuovo» ha ironizzato, chiamando “Ottetto minaccioso” l’insieme dei meccanismi patogenetici che causano il diabete e le sue complicazioni:
Per concludere questa rassegna, ho voluto lasciare spazio alle novità dei più recenti studi clinici (in fase di conclusione e di pubblicazione): un buon controllo glicemico post-prandiale può venire ottenuto con due iniezioni pre-prandiali di pramlintide (analogo dell’amilina secreta dalle cellule insulari pancreatiche) confrontata con iniezioni di insulina prima dei pasti, in aggiunta al trattamento insulinico basale in diabetici tipo 2. Lo studio ARISE , invece, ha randomizzato 6.144 pazienti (di cui 2.271 diabetici tipo 2) entro un anno da una sindrome coronarica acuta per valutare l’effetto del succinobucol (un antiossidante) rispetto a placebo. L’azione anti-ossidante e anti-infiammatoria di questo farmaco è in grado di ridurre la progressione verso nuovi casi di diabete; nei pazienti già diabetici, il succinobucol permette di raggiungere un goal di HbA1c <7% in misura maggiore rispetto al placebo, riducendo i livelli plasmatici di insulina e senza variazioni significative dell’incremento ponderale, di edema o di circonferenza addominale. Gli effetti collaterali più significativi sono stati la diarrea e un rischio relativamente maggiore di insorgenza di fibrillazione atriale e scompenso cardiaco, condizioni che meritano ulteriori riflessioni. Lo studio ACT NOW è stato disegnato per valutare l’efficacia di pioglitazone nel prevenire l’insorgenza di diabete in soggetti con intolleranza ai glucidi. Il pioglitazone ha diminuito dell’81 per cento il rischio di tale evoluzione, venendo a proporsi come potenziale trattamento preventivo in soggetti ad alto rischio di sviluppare diabete tipo 2. Infine sono stati presentati i primi risultati (a 30 settimane) dell’utilizzo della formulazione LAR di exenatide in somministrazione settimanale , rispetto alla formulazione attualmente in commercio (che prevede due iniezioni giornaliere). L’iniezione settimanale ottiene una maggiore riduzione di HbA1c, promuovendo un soddisfacente calo ponderale, senza rischi di ipoglicemia, con minori effetti collaterali gastro-enterici. E’ indubbio che questa nuova strategia terapeutica potrà migliorare la qualità di vita dei diabetici tipo 2, facilitando il raggiungimento degli obiettivi terapeutici. Nell’ultima giornata del convegno sono stati presentati (in contemporanea con la pubblicazione sul New England Journal of Medicine ) anche i “deludenti” risultati dello studio ACCORD . NB: il prossimo appuntamento annuale dell’ American Diabetes Association è fissato per il 5-9 giugno 2009 a New Orleans che, risanata dalle profonde ferite della terribile inondazione, saprà senza dubbio accogliere degnamente i delegati di tutto il mondo.
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di Antonio C. Bossi Tratto da Cardiometabolica.org |