Diabete. È un’epidemia globale
«Vai al fast food?», «dimmi un cibo grasso», «cos’è una caloria?», «mai fatto diete?», «quanto sport fai?». Alle domande poste nel documentario Giovani appetiti, preparato da studenti della facoltà di medicina nell’Università di Pavia, affiancati da Maria Luisa Fonte, medico nutrizionista, hanno risposto maschi e femmine dai 15 ai 24 anni. «Il filmato dà uno spaccato sorprendente sull’ignoranza dei giovani in fatto di alimentazione. Di chi la responsabilità? Famiglia, scuola o potere persuasivo del marketing?» si chiede Rossana Totaro, che con Gregorio Maiorano e Davide Bonaldo, il cameraman, ha lavorato al progetto. «Il fast food lo trovano “comodo, veloce, invitante e a basso prezzo”. Ma se si chiede cosa sanno dei grassi usati, mettono sullo stesso piano dolci e patatine fritte. Addirittura Francesca, 15 anni, assimila la caloria al grasso che è nel cibo. Sport e diete hanno un obiettivo estetico, servono a essere più belli, non più sani».
Eppure, è assodato: alimentazione e stile di vita giocano un ruolo essenziale per evitare malattie croniche degenerative come il diabete di tipo 2, detto insulinoresistente, che colpisce soprattutto in età adulta. È il più diffuso, legato all’epidemia emergente di obesità, ma anche all’allungamento della vita: uno su cinque degli over 65enni ha il diabete. «Obesità e diabete sono in costante espansione. Si stima che nel 2025 la diffusione del diabete di tipo 2 raddoppierà rispetto a 10 anni fa. E in Italia ci sarà un aumento dei casi noti e non noti del 50 per cento e in età sempre più giovane, con un corollario di malattie cardiache che farà lievitare la spesa sanitaria» avverte Antonio Pontiroli dell’Università di Milano e presidente del IX Convegno nazionale su obesità e diabete, appena conclusosi a Milano.
Nel mondo i malati sono oltre 240 milioni. «Questa emergenza comporta una spesa vertiginosa per le cure (solo negli Stati Uniti si sono raggiunti in un anno i 210 miliardi di dollari, cifra che supererà nel 2025 i 300) e per la quale non esiste una soluzione medica, bensì sociale» sostiene Camillo Ricordi, direttore del Diabetes research institute di Miami, Florida.
La prevenzione per questa malattia subdola, che per lungo tempo non dà praticamente sintomi, deve cominciare molto presto. «Perché i bambini obesi di oggi saranno adulti obesi con un alto rischio di ammalarsi di diabete» prevede Antonio Nicolucci, responsabile del laboratorio di epidemiologia clinica del diabete del Consorzio Mario Negri Sud. «Uno studio ha verificato che basta perdere 3-4 chili di peso, con 30 minuti al giorno a passo veloce, per ridurre l’incidenza di diabete di quasi due terzi. E i vantaggi restano». Una volta modificato il metabolismo, rimane negli anni successivi una memoria di questo cambiamento.
Non bastasse, uno studio americano ha messo a confronto farmaci per ridurre il glucosio nel sangue e stile di vita: modificare il secondo è più efficace dei farmaci ipoglicemizzanti per prevenire il diabete.
In uno studio, il Navigator (a marzo sul New England Journal of Medicine), oltre 9 mila persone con ridotta tolleranza al glucosio e una condizione di prediabete hanno ricevuto o il valsartan, farmaco per abbassare la pressione, o la nateglinide, che stimola la produzione di insulina e riduce i picchi glicemici dopo i pasti. I farmaci non hanno influito sullo sviluppo di diabete, né sul numero di eventi cardiovascolari e mortalità. Solo il valsartan avrebbe ridotto marginalmente l’incidenza di casi di diabete. «E non può spingerci a pensare di prescriverlo a tutti. Meglio intervenire sullo stile di vita. Cosa che richiede impegno da parte del medico, il quale deve educare il paziente a modificare le proprie abitudini» raccomanda Nicolucci.
Nel diabete di tipo 1, o giovanile, più raro, il sistema immunitario distrugge le cellule del pancreas che producono insulina, ormone essenziale per il corretto utilizzo del glucosio presente nel sangue; il tipo 2 è causato invece dalla ridotta efficacia dell’azione dell’insulina e dal deterioramento delle cellule che la producono. L’iperglicemia (troppo glucosio nel sangue) alla lunga causa complicanze legate a un restringimento delle arterie, associato a ipertensione e grassi nel sangue (o dislipidemia), accrescendo il rischio cardiovascolare.
Uno studio prospettico inglese mostra come la malattia inizi in media 4-7 anni prima della diagnosi: quindi i malati, per un’alta percentuale (20 per cento), quando scoprono di esserlo rischiano di avere già compromesso il loro organismo. Per la diagnosi si misura la glicemia, che valuta lo zucchero nel sangue e varia: a digiuno o dopo lo sport è più facilmente normale.
«Come per colesterolo e pressione, i valori che segnano il confine tra normale e patologico sono scesi: oggi se la glicemia è da 126 mg/dl (milligrammi per decilitro) in su si parla di diabete. Le nuove linee guida hanno ora introdotto la misurazione dell’emoglobina glicata come test per la diagnosi, il cui uso per il monitoraggio è consolidato da anni perché rispecchia l’andamento della glicemia negli ultimi mesi. Il valore ideale dovrebbe essere meno di 6,5 per cento» precisa Massimo Tombesi, medico di famiglia del Centro studi e ricerche in medicina generale.
Anticipare la diagnosi, 6 anni prima che sintomi come sete e bisogno continuo di urinare si sviluppino, serve a prevenire l’infarto e a migliorare la qualità di vita. È la conclusione di un recente studio su Lancet che indica come migliore strategia sottoporsi a test fra i 30 e i 45 anni ogni 3-6 anni. Se si agisce precocemente, non necessariamente con i farmaci ma intervenendo sullo stile di vita, si hanno benefici su mortalità e su complicanze.
Un’indagine inglese, lo United King-dom prospective study, dimostrò nel 2008 che se i pazienti con recente diagnosi di diabete venivano trattati in modo intensivo all’esordio della malattia, c’erano meno complicanze microvascolari (oculari e renali) e macrovascolari (infarti e ictus) e si riduceva la mortalità.
Purtroppo, come rileva la valutazione fatta ogni anno su 200 mila pazienti dall’Associazione medici diabetologi, esiste un’inerzia terapeutica: in media il paziente è inviato dallo specialista dopo oltre 5 anni dall’esordio della malattia.
«Siccome non dà sintomi particolari, la si sottovaluta» lamenta Nicolucci. «Le carte vanno giocate all’inizio, in una condizione ancora di prediabete o subito dopo la diagnosi, e non in fase avanzata della malattia». Lo studio Accord, in aprile sul New England Journal of Medicine, su 10 mila pazienti già diabetici da tempo e ad alto rischio per il cuore, ha mostrato come un controllo stretto di glicemia (emoglobina glicata sotto 6,5) e pressione (sistolica sotto i 120) e una terapia anticolesterolo con statine e fibrati non hanno modificato la mortalità per problemi cardiovascolari rispetto a cure meno aggressive.
Negli ultimi vent’anni i farmaci per il diabete si sono moltiplicati. Oggi per ristabilire un equilibrio glicemico ci sono varie categorie di medicinali che funzionano in modo diverso. Alla metformina (riattiva il segnale dell’insulina soprattutto nel fegato, che funge da riserva di glucosio nei periodi di digiuno) si sono aggiunti sulfoniluree (stimolano la secrezione dell’insulina dopo un pasto), glitazonici (agiscono a livello del tessuto adiposo), glinidi (regolano la secrezione di insulina dopo un pasto), oltre ai più recenti incretinomimetici (agiscono sulla glicemia postprandiale). «Tutti farmaci che il medico può giostrare a seconda del paziente, su misura» spiega Gabriele Riccardi, professore di endocrinologia e malattie del metabolismo all’Università Federico II di Napoli, neopresidente della Società italiana di diabetologia.
Quelli nuovi costano da 5 a 10 volte quelli vecchi e il loro profilo di sicurezza è incerto. Altri sono sotto stretta osservazione. Come l’Avandia, nome commerciale del rosiglitazone della GlaxoSmithKline (Gsk), proposto in fase prediabetica per prevenire la malattia e approvato nel 1999 «prematuramente», come stabilì tre anni fa una commissione specifica della Fda. Dopo che il farmaco era stato prescritto a milioni di persone, nel 2007 un’analisi di 42 studi clinici sul New England Journal of Medicine, su 15.560 diabetici, evidenziò che aumentava il rischio di infarto, ictus e mortalità per cause cardiovascolari. In attesa dei risultati dello studio Record sulla sicurezza del farmaco (saranno discussi nel luglio 2010), le agenzie regolatorie, la Fda e quella europea Ema, invitano i medici a tener conto dell’allerta.
Nella malattia, di solito dopo 7-10 anni, la capacità di produrre insulina viene meno e il ricorso a quella iniettabile è inevitabile. «Con le biotecnologie ora si ottiene insulina umana inserendo il gene in batteri che la producono, un tempo la si estraeva dal pancreas di bovini e suini» riferisce Riccardi. «Esistono oggi analoghi dell’insulina modificata per durata di azione, in modo che sia più lunga e capace di mimare quella basale che circola nell’organismo. Ma anche analoghi di breve durata che si danno subito prima dei pasti e agiscono immediatamente, rendendo meno probabili iper o ipoglicemie».
Si cercano anche altri modi per somministrare l’ormone. La Fda ha da poco approvato un’insulina rapida da inalare, la precedente era stata commercializzata e poi ritirata perché creava problemi polmonari. «Gli alveoli dei polmoni non sono fatti per questo» afferma Hervé Leblanc, diabetologo all’ospedale Saint-Louis di Parigi. Allo studio, per ora su topi, ci sono anche micropancreas bioartificiali: una capsula biocompatibile sottocute contiene betacellule manipolate geneticamente e ricavate dal paziente stesso perché producano l’insulina necessaria.
Un passo indietro ha fatto il trapianto di isole pancreatiche da donatore. L’intervento comporta farmaci antirigetto, tossici per i reni spesso compromessi nel diabetico che con gli anni rischia la dialisi.
«Fra le terapie di un futuro non lontano, la medicina rigenerativa con il trapianto di cellule staminali ricavate dal midollo del paziente stesso e iniettate nel pancreas affinché si differenzino e producano insulina» conclude Riccardi.
da Panorama.it