La frontiera tecnologica contro il diabete, dai robot alle staminali
La “prima” mondiale è stata a Pisa, a fine settembre. Ugo Boggi, direttore dell’Unità di Chirurgia generale e Trapianti nel diabetico dell’Ospedale Universitario pisano, ha eseguito un trapianto di pancreas in laparoscopia con l’aiuto del robot “Da Vinci” su una signora che da vent’anni soffriva di diabete di tipo uno, quello insulino-dipendente: una malattia autoimmune in cui gli anticorpi distruggono le cellule del pancreas che producono insulina e così, per tenere sotto controllo la glicemia, è indispensabile iniettarla. Quando con gli anni si fanno strada complicanze pesanti come retinopatia, neuropatie, problemi cardiovascolari o un’insufficienza renale che costringe alla dialisi, il trapianto di pancreas, in taluni casi, può essere preso in considerazione: «Non è una cura, né un’opzione valida per tutti – sottolinea Boggi -, ma il trapianto blocca l’evoluzione delle complicanze e ciò in alcuni casi può essere davvero utile».
MENO RISCHI – «Il trapianto “robotico” potrebbe rendere l’intervento alla portata di un maggior numero di pazienti – spiega lo specialista -, perché potenzialmente può garantire un decorso post operatorio più rapido e ridurre i rischi di infezione legati alla ferita». Anziché un lungo taglio dal torace al pube, infatti, per l’intervento in laparoscopia basta un’incisione di 7 centimetri per il passaggio dell’organo e tre taglietti per inserire le “braccia” e la telecamera del robot. Finora nessun trapianto di pancreas era stato mai eseguito in laparoscopia perché operare da “dentro” significa aver bisogno di molto tempo per unire i vasi sanguigni dell’organo donato a quelli dell’organismo ricevente: un’ora contro venti minuti, e questo faceva temere risultati peggiori in termini di attecchimento e funzionalità del trapianto. È qui che è entrato in gioco il robot: «Consente una visione tridimensionale, inoltre le sue “braccia” hanno una maggior possibilità di movimento rispetto agli strumenti per laparoscopia e sono più veloci e precise: basta mezz’ora per riunire arterie e vene e l’organo non è a rischio – chiarisce il chirurgo -. È presto però per essere certi dei vantaggi del trapianto “robotico”: abbiamo trapiantato così rene e pancreas a un altro diabetico, a novembre, ma sono gli unici casi al mondo».
FARMACI A VITA – I due pazienti operati a Pisa stanno bene, non prendono più l’insulina. A un anno dal trapianto di pancreas infatti l’ormone non serve più al 90 per cento dei pazienti (a cinque anni si scende all’84 per cento, dopo dieci anni al 75): sono necessari però i farmaci immunosoppressori a vita, ma in certi casi il gioco può valere la candela. Soprattutto se il trapianto dovesse diventare meno “invasivo”, come promette la sua versione robotica e come già accade con i trapianti di isole pancreatiche, in cui si iniettano solo le aree dove si concentrano le beta-cellule che producono insulina. Anche questo metodo tuttavia non è per tutti: «Resta anche in questo caso la necessità dell’immunosoppressione a vita e, soprattutto, le isole trapiantate non sono eterne: si sta cercando di migliorarne la sopravvivenza per esempio incapsulandole, ma ancora non abbiamo una soluzione definitiva», interviene Stefano Del Prato, presidente eletto della Società Italiana di Diabetologia (SID). Così, a un anno dal trapianto solo il 40 per cento dei pazienti è ancora libero dall’insulina, a tre anni la percentuale scende attorno al 20 per cento.
CELLULE BETA – All’Ospedale San Raffaele di Milano, il centro italiano con la maggiore esperienza nei trapianti di isole pancreatiche, per la prima volta al mondo si è cercato di capire quando e quanto muoiono le beta-cellule sottoponendo a risonanza magnetica pazienti trapiantati con isole marcate con nanoparticelle. Lorenzo Piemonti, che dirige il Programma di Trapianto Isole al San Raffaele, spiega: «Entro la prima settimana dal trapianto muore il 40 per cento delle cellule beta, dopo il primo mese la perdita prosegue ma si stabilizza. Questo ci dice chiaramente che qualsiasi intervento per migliorare la sopravvivenza deve essere precoce». Lorenzo Piemonti sta anche studiando nuovi metodi per “vedere” le beta-cellule native, non trapiantate, e quantificare ce ne sono nel pancreas. Lo scopo di questi studi è ottenere informazioni utili per capire chi sta andando incontro alla malattia e provare strategie di prevenzione. Ma si tratta solo di studi promettenti: per le applicazioni in clinica occorrerà aspettare ancora parecchio tempo. Così come bisognerà avere pazienza per capire se davvero le cellule staminali, altro fronte della ricerca più d’avanguardia, potranno aiutare nella cura del diabete.
STAMINALI – L’ultima novità in merito, arrivata proprio dal nostro Paese, e parla dell’uso di staminali prelevate dal limbus, una zona dell’occhio, e riprogrammate in modo da farle diventare beta-Cellule che “sentono” la glicemia e producono insulina. Carla Giordano, l’endocrinologa dell’università di Palermo che le sta sperimentando in laboratorio, durante l’ultimo congresso della Sociatà Italiana di Diabetologia ha dichiarato che spera di riuscire a iniziare i primi test sull’uomo entro cinque anni. Ma di ricerche sulle staminali, adulte o del cordone ombelicale, ce ne sono parecchie in corso: in Brasile, per esempio, è stato condotto uno studio pilota su 15 persone con una diagnosi recente di diabete utilizzando cellule di midollo osseo. Stando ai risultati, alcuni pazienti sono potuti restare anche 31 mesi senza insulina. «Per ora tuttavia non si può pensare a un’applicazione clinica reale: si tratta di promesse, risultati con implicazioni tangibili per tutti i malati sono di là da venire», conclude Del Prato.
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di Elena Meli