Obesità infantile e malattie coronariche nell’adulto
Nonostante il sovrappeso e l’obesità aumentino le probabilità di incorrere in numerose patologie dell’età media e avanzata (tra cui per esempio le neoplasie in generale, e in particolare di alcune sedi come la mammella, l’endometrio, l’esofago e il rene) (1), l’attenzione del mondo medico si è tradizionalmente occupata soprattutto dell’aumento del rischio di malattie cardiovascolari che si associa alla loro presenza. Due recenti articoli sul prestigioso New England Journal of Medicine (2,3) hanno esaminato a questo proposito un tema molto attuale: la relazione tra l’aumento della prevalenza di sovrappeso e obesità in età giovanile che si osserva ai giorni nostri e il rischio di malattie cardiovascolari nei prossimi decenni. Jennifer Baker ha analizzato i dati di un imponente database danese, relativo ad oltre 270mila studenti nati a partire dal 1930, il cui peso era stato valutato tra i 7 ed i 13 anni di età, e tra i quali sono stati identificati, dopo un follow-up medio di durata ventennale, circa 15mila casi di malattia coronarica fatale o non fatale. I risultati dello studio sono chiari: il sovrappeso in età pediatrica aumenta il rischio coronarico. Già l’incremento di un’unità dello z score del BMI (equivalente a circa 2 kg all’età di sette anni, a circa 3 kg a nove anni e a 5,6 kg a 13 anni) si associa tra i maschi a un aumento statisticamente significativo del rischio di malattia coronarica nel tempo. L’eccesso di rischio, in particolare, cresce con l’età a cui il sovrappeso è stato rilevato, ed è pari al 6 per cento se l’aumento dello z score è stato osservato a sette anni e al 15 per cento se si riferisce invece all’età di 12-13 anni. Tra le femmine, l’aumento del rischio coronarico è significativo solo quando il sovrappeso viene rilevato a partire dai nove anni (età alla quale un’unità di z score equivale a 3,25 kg) e raggiunge il 12 per cento a 13 anni (età alla quale un’unità di z score equivale a 6,3 kg). E’ interessante sottolineare che gli autori non disponevano del BMI dei soggetti studiati in età adulta: essi hanno semplicemente correlato, quindi, la presenza di sovrappeso tra i 7 e i 13 anni con il rischio coronarico successivo, in maniera del tutto indipendente dall’evoluzione che il peso stesso (e quindi il BMI) può avere seguito nei decenni successivi. Nel complesso, secondo i dati degli autori, si può calcolare che all’età di 60 anni si saranno osservati 3,8 casi in eccesso di malattia coronarica ogni cento uomini con un sovrappeso pari a due unità di z score (11 kg) a 13 anni di età, e 1,1 casi ogni cento donne con un analogo eccesso ponderale. Utilizzando un approccio totalmente modellizzato, Kirsten Bibbins-Domingo e colleghi hanno invece stimato la futura prevalenza di obesità in età adulta, negli Stati Uniti, conseguente all’attuale eccesso di peso nelle fasce di età adolescenziale, e gli effetti che ne deriveranno sul rischio di eventi coronarici. Secondo i loro dati, dal 30 al 37 per cento dei maschi di 35 anni di età, e dal 34 al 44 per cento delle loro coetanee, sarà obeso nel 2020. Entro il 2035, sempre secondo il modello utilizzato, ciò comporterà un aumento dell’incidenza di eventi coronarici del 5-16 per cento rispetto alla situazione odierna, per un eccesso, in termini assoluti, di circa 100mila casi. Questo incremento sarà essenzialmente dovuto al peggioramento dei fattori di rischio coronarico associati all’obesità: un aumento dell’1-2 per cento della prevalenza di una pressione diastolica superiore a 90 mmHg, del 4-5 per cento della prevalenza di valori della colesterolemia HDL o LDL non desiderabili, e dello 0,2-0,3 per cento della prevalenza del diabete di tipo 2. Gli autori sottolineano come il trattamento di questi fattori di rischio – al di là dei costi aggiuntivi, sia in termini economici sia di effetti collaterali, indotti dai farmaci impiegati – neutralizzerebbe solo in parte l’aumento atteso dell’incidenza di eventi coronarici. Se i termini del problema, quindi, sono di fatto condivisi (ed è interessante la sostanziale concordanza tra le stime ottenute dagli autori dei due articoli, che muovono da dati e da approcci concettuali molto differenti), le “ricette” per affrontarlo sono molto meno chiare. In tal senso David Ludwig, della Harvard Medical School di Boston, cui il NEJM ha affidato l’editoriale di commento ai due lavori citati (4), pecca forse per una certa arrendevolezza a modelli di intervento che, finora, hanno funzionato solo in maniera molto limitata. Certamente è lo squilibrio tra le calorie introdotte e le calorie “bruciate” a sottendere, inesorabilmente, all’aumento ponderale, sia delle vecchie sia delle nuove generazioni. Tuttavia, più che agli interventi di tipo repressivo citati da Ludwig (limitazione della pubblicità del “cibo spazzatura”, della presenza di distributori di cibo e bevande nelle scuole e delle tentazioni cui i ragazzi sono esposti nelle caffetterie delle scuole, disincentivazione della produzione di certe categorie alimentari a favore di altre e dell’uso della televisione), per fare un vero salto di qualità nell’affrontare efficacemente i problemi del sovrappeso forse è necessario guardare a una ricerca scientifica e tecnologica più mirata (e forse più pragmatica e meno ideologica). Lo stesso Ludwig ricorda che solo elucidando in modo più chiaro i meccanismi della sazietà, l’effetto che specifici sapori o altri aspetti del cibo giocano nel determinarne il consumo e i meccanismi mentali – consci o istintuali – che regolano la decisione di consumare un alimento o fare piuttosto attività fisica, si può immaginare di rendere più facile (è questo che desidera il pubblico) il mantenimento di un equilibrio energetico, prevenendo così l’eccesso ponderale. Più ricerca innovativa e di migliore qualità, quindi: anche per cercare di non incorrere nei poco rassicuranti scenari tratteggiati dalla Baker e dalla Bibbins-Domingo.
Bibliografia 1 Reeves GK, Pirie K, Beral V, Green J, Spencer E, Bull D; Million Women Study Collaboration. Cancer incidence and mortality in relation to body mass index in the Million Women Study: cohort study. Brit Med J 2007; 335: 1134
|
di Andrea Poli febbraio 2008
|