“I big dei farmaci alleati del diabete”

Per quattro anni direttore dei trapianti cellulari al Transplantation Institute dell’Università di Pittsburgh. Dal 1993 dirige la divisione trapianti del prestigioso Diabetes Research Institute, ateneo di Miami. Camillo Ricordi, laurea all’Università di Milano, è uno dei cervelli nostrani impegnati all’estero. Uno dei più brillanti.

Professore, dove abitano le speranze per vincere il diabete?
«Nella ricerca sulle staminali. Da queste si può partire per rigenerare le cellule beta che producono insulina».

Ma l’argomento incontra, almeno nel nostro Paese, forti resistenze per l’impossibilità di usare gli embrioni.
«Non solo in Italia. Negli Stati Uniti c’è il veto di Bush. Anche se, per la verità, gli studi si fanno ugualmente nei centri privati: il divieto infatti riguarda l’utilizzo di fondi federali. Ci si serve di materiale prodotto dalla fertilizzazione in vitro e destinato alla distruzione. Viene considerato alla stregua dei donatori di organi: non si capisce perché il concetto vada bene per il cuore di un morto suicida o in un incidente stradale e non per i prodotti in provetta».

Perché è necessaria la ricerca in questo filone?
«In Italia abbiamo 1.200 donatori che ci consentono di utilizzare cellule beta da cadavere e tre milioni di malati. Negli Stati Uniti i donatori sono 6 mila e i pazienti venti milioni. In tutto il mondo i diabetici sono circa 246 milioni. E si parla di epidemia crescente. Non è difficile comprendere perché sia così necessario trovare una fonte illimitata di cellule produttrici di insulina…».

Quanto tempo ci vorrà?
«Dai cinque ai dieci anni».

Gli studi sono molto avanti in America?
«Gli Usa spendono 174 miliardi di dollari all’anno per curare i diabetici. In pratica, un dollaro ogni sei, nella sanità, è investito a questo scopo. Ma le multinazionali del farmaco, ovvero quelle con la potenza economica per sviluppare tali studi, investono nel settore una minima parte di quanto potrebbero. Pochi giorni fa, altre due Big Pharma hanno comunicato il loro mancato interesse in questo campo. Il motivo? Si tratta di “financial marketing consideration”… Decisioni prese dall’alto».

Meglio curare che guarire? Alle multinazionali conviene continuare ad avere persone malate e investire in ricerca di nuovi farmaci, per autoalimentarsi, anziché cercare di risolvere il problema?
«E’ così. Ma è un aspetto che, purtroppo, riguarda tanti altri campi di ricerca, per esempio quello sul cancro. Ecco perché sarebbe meglio che non fosse lasciato tutto solo nelle mani dei privati».

Lei è noto nel mondo per aver sviluppato un metodo innovativo grazie al quale è stato possibile, negli Anni Novanta, realizzare i primi allotrapianti (di tessuti tra la stessa specie, n.d.r.) di isole pancreatiche nei malati. A che punto è questa via?
«Malgrado i progressi degli ultimi anni, ci sono ancora molte limitazioni all’impiego su vasta scala di queste risorse. Per esempio, la necessità di ricorrere a farmaci immunosoppressori a vita e il lento deterioramento nel tempo della funzionalità delle isole stesse. Oggi sono però allo studio diverse altre strategie d’intervento per superare i problemi e ridurre al minimo gli effetti indesiderati delle terapie immunosoppressive».

Il diabete tipo 1, patologia autoimmune dovuta alla distruzione delle cellule beta del pancreas a opere di cellule del sistema immunitario, sta crescendo in modo inatteso. Perché, professore?
«Le cause non sono chiare. Credo, però, si debba indagare nella direzione dell’aumento generale delle malattie autoimmuni, legato all’eccesso di igiene».

 

 

Di Daniela Daniele
da La Stampa

9 settembre 2008