Celiachia: i campanelli d’allarme
Intervento del prof. Carlo Catassi, Direttore della Clinica Pediatrica dell’Università Politecnica di Ancona
Il lavoro che presentiamo oggi è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista “Digestive and Liver Disease”, una tra le prime riviste a livello mondiale nell’ambito della gastroenterologia, è già disponibile on line e visibile a tutti.
La ricerca è stata condotta su 9.000 bambini delle scuole elementari nelle sedi di Verona, Milano, Roma, Padova, Verona, Salerno, Ancona, Bari e Reggio Calabria. Si tratta dello studio più ampio mai eseguito in Italia sulla celiachia, uno dei maggiori al mondo, ed ha messo in luce l’alta prevalenza di questa condizione nel nostro paese: in Italia circa un bambino su sessanta è celiaco. Si tratta di una patologia permanente, che richiederebbe una diagnosi tempestiva per scongiurare complicanze tardive anche gravi, come osteoporosi, infertilità, rari casi di tumore.
Lo studio ha rilevato un serio problema di sottodiagnosi. Il dato è preoccupante: solo il 40% dei casi ottiene una diagnosi di celiachia su basi cliniche. I medici prestano molta attenzione al minimo sospetto di celiachia, ma spesso succede che i genitori non portino i figli dal pediatra perché non rilevano sintomi particolari. Per questo si parla di ‘iceberg celiaco’. Tra i primi campanelli d’allarme va considerata la familiarità per celiachia, la presenza di altre patologie autoimmuni, che spesso si manifestano nello stesso soggetto o in ambito familiare. Possono essere sintomi di celiachia la diarrea o la stitichezza, i dolori addominali, l’anemia da carenza di ferro, il vomito, la stanchezza cronica solo per elencarne alcuni. Le femmine sono più colpite dei maschi, in rapporto di due casi a uno: come quasi tutte le malattie autoimmuni sono più frequenti nel sesso femminile.
La patologia si può manifestare a ogni età, anche nell’adulto, ma generalmente insorge nel bambino dopo il divezzamento, cioè quando il bambino inizia a introdurre glutine nell’alimentazione, nutrendosi anche con farine, pane, pasta e biscotti. La latenza è di alcuni anni, poi si può si manifestare la patologia. La fascia d’età più colpita è quella che va dai 2 ai 10 anni.
I dati del nostro studio ci collocano tra i paesi in cui la prevalenza è maggiore, insieme a Svezia, Finlandia ma anche India e Nord Africa. In Giappone o nelle Filippine è una condizione assolutamente rara, per la caratteristiche dell’alimentazione orientale basata sul riso. Ma oggi la situazione sta cambiando: popolazioni che difficilmente si nutrivano con derivati del frumento, oggi iniziano a consumare panini con hamburger e pizze. Per questo stanno aumentando anche in quelle zone i casi di celiachia.
Per quanto riguarda le cause, possiamo affermare, con margine di approssimazione, che la celiachia per il 40% dipende dalla predisposizione genetica, per un altro 40% dall’alimentazione, il restante 20% da fattori ancora sconosciuti. Anche se una persona ha la predisposizione genetica ma non si espone mai al glutine non svilupperà la malattia.
Il nostro obiettivo futuro è quello di fare uno screening in età scolare per evitare che molti casi sfuggano all’osservazione, per scongiurare problemi di accrescimento. Il test genetico che abbiamo utilizzato per lo screening è stato in primo luogo eseguito su goccia di sangue prelevata con pungidito. Poi i bambini che hanno mostrato positività genetica sono stati invitati a uno screening di secondo livello con un prelievo di sangue e successivi accertamenti.