Celiachia: il diabete visto dall’intestino
Introduzione La possibilità di identificare soggetti ad alto rischio di sviluppare il diabete insulino-dipendente porta in sé la frustrazione derivante dall’assenza di un’efficace strategia preventiva della malattia. La presenza di anticorpi diretti contro il pancreas e l’analisi dell’HLA consentono di predire con elevata affidabilità lo sviluppo del diabete in età pediatrica (fratelli o figli di diabetici), quando il rischio di sviluppare la malattia è ancora elevato e i tempi per la prevenzione sono più lunghi. E’ chiaro che la determinazione di questo rischio ha senso, ed è eticamente accettabile, solo in presenza di efficaci strategie preventive o nell’ambito di studi sperimentali di prevenzione. D’altra parte, la presenza di una risposta autoanticorpale persistente contro il pancreas indica forse qualcosa di più di una condizione di rischio, qualcosa che è forse già l’inizio della malattia, lo specchio dell’insulite, cioè dell’attivazione di linfociti autoreattivi che infiltrano le insule pancreatiche, conducendo lentamente ad una distruzione delle beta-cellule (deputate alla produzione di insulina) fino alla comparsa del diabete manifesto. Un intervento a questo punto avrebbe già il significato di una prevenzione secondaria. Di fatto, due delle strategie preventive attualmente in corso di valutazione, basate sull’utilizzo di Nicotinamide l’una e di Insulina per via sottocutanea l’altra, sembrano mirate più a ritardare l’insufficienza delle beta cellule che la progressione della malattia autoimmune (trials di prevenzione). La nicotinamide fornirebbe un substrato all’enzima NADP particolarmente importante nel metabolismo della beta cellula, diminuendone la sofferenza. Più complesso appare il razionale della profilassi insulinica, proposta in seguito dall’osservazione che le prime somministrazioni di insulina nel diabetico si associano spesso ad un recupero funzionale delle beta cellule. E’ stato supposto che quest’effetto sia mediato da un’azione trofica dell’ormone sulle insule, o da una sua capacità di indurre tolleranza immune quando somministrato per via sottocutanea. In realtà non c’è alcuna evidenza che al miglioramento clinico si associ una soppressione della reazione autoimmune in corso. Una terza strategia di prevenzione, che ha dato risultati contrastanti nell’animale di laboratorio, si basa sulla somministrazione orale di insulina, allo scopo di indurre attraverso il sistema immune dell’intestino una risposta di tolleranza all’ormone e al tempo stesso alle cellule pancreatiche (fenomeno della bystander suppression, M&B gen 1998). Il rischio di diabete: tra genetica e ambiente, tra HLA e autoanticorpi. Il diabete insulino-dipendente è una malattia multifattoriale nella patogenesi della quale concorrono fattori ereditari multigenici ed elementi ambientali. Il peso dei fattori ambientali sembra essere preponderante (la concordanza della malattia in gemelli monozigoti è intorno al 30 %), ma un substrato genetico “permissivo” è indispensabile al realizzarsi della malattia. Lo studio genetico della regione HLA, dove risiedono numerosi geni regolatori della risposta immune (geni per le molecole responsabili della presentazione degli antigeni al sistema immune, geni per le citochine), appare particolarmente interessante poiché attraverso la chiave patogenetica dell’autoimmunità è in grado di collegare la genetica con l’ambiente (le molecole HLA permettono ai linfociti di riconoscere i diversi antigeni estranei) (IDDM-HLA) Anche sul fronte ambientale i fattori chiamati in causa sono numerosi e di difficile valutazione. Infatti, dato che nella maggior parte dei casi la fase preclinica del diabete dura diversi anni, non è facile risalire con studi epidemiologici ai possibili eventi che hanno scatenato l’inizio della risposta autoimmune. D’altra parte è probabile che il diabete insulino dipendente abbia in molti soggetti una progressione a più gradini: in una prima fase si sviluppa una risposta autoimmune sufficiente a far comparire in circolo gli autoanticorpi ma senza apparente compromissione della funzione insulare; in una seconda fase altri fattori consentono di superare i meccanismi di controllo fino a condurre al diabete manifesto. L’evoluzione dall’insulite (soggetti ICA positivi con HLA DR2) al diabete clinico non è infatti obbligatoria. Gli studi epidemiologici hanno mostrato che l’incidenza del diabete negli anni può variare molto più di quanto vari il patrimonio genetico della stessa popolazione, suggerendo che sia possibile identificare i fattori ambientali attivi nella genesi della malattia . Tra i possibili fattori ambientali in causa, appaiono di particolare importanza l’alimentazione e le infezioni, in particolare quelle a carico del tratto gastro intestinale. Entrambi questi fattori si confrontano con l’organismo a livello della mucosa dell’intestino e i protagonisti del confronto tra la genetica e l’ambiente sono quindi i linfociti della mucosa intestinale. L’ipotesi che stiamo valutando, e cioè che il diabete nasca dall’intestino, appare coerente con questi dati. La patogenesi del diabete insulino dipendente. Il diabete mellito insulino-dipendente è classicamente considerato un esempio di malattia autoimmune d’organo, a indicare che il sistema immune sembra limitare la sua autoaggressività verso un singolo organo. In effetti nelle isolette pancreatiche dei soggetti diabetici è possibile evidenziare un infiltrato cellulare, contenente linfociti autoreattivi responsabili della distruzione delle beta cellule. A queste cellule, e alla loro funzione di produrre insulina, è limitato il danno. In realtà in molti casi di IDDM) la presenza di altri autoanticorpi sierici (come quelli diretti contro la tiroide) suggerisce che, se anche la malattia autoimmune può essere definita d’organo, il substrato di malfunzionamento del sistema immune che ne è alla base ha una dimensione più generale. Di fatto, come vedremo, l’osservazione che nei soggetti diabetici siano identificabili sottili alterazioni del sistema immune intestinale, è coerente con una visione più allargata della patogenesi del diabete e delle altre malattie autoimmuni d’organo. Il diabete dall’intestino: glutine, latte e virus. Glutine, latte vaccino ed infezione da enterovirus sono tre fattori ambientali ritenuti importanti nella patogenesi dell’IDDM). La prima caratteristica che questi hanno in comune è quella di entrare in contatto con l’organismo a livello della mucosa intestinale. I due alimenti hanno poi una seconda caratteristica in comune, quella cioè di aver fatto parte nel secolo scorso di un importante cambiamento delle abitudini dietetiche (almeno per quanto riguarda le quantità), che non ha avuto né il tempo (poco più di un secolo) né le condizioni (almeno nei paesi ad elevato sviluppo socio-sanitario) di indurre un adattamento della specie in termini di selezione naturale. E’ possibile che il cambiamento dietetico spieghi, almeno in parte, la variabile incidenza di diabete nel tempo che si è osservata in più paesi. L’evidenza di un ruolo patogenetico del glutine, almeno in una proporzione di diabetici, nasce dall’osservazione che i celiaci non diagnosticati, esposti a lungo alla dieta contenente glutine, hanno un rischio molto elevato di sviluppare il diabete (fino al 25% dopo 30 anni di dieta contenente glutine) (Celiachia e diabete). Questi dati suggeriscono che, in soggetti con il substrato genetico della celiachia (HLA ed altro non noto) il glutine sia in grado di favorire una risposta autoimmune anti-pancreas ed infine il diabete conclamato. L’associazione con la celiachia sembra spiegare solo una parte minore dei casi di IDDM (meno del 10 %), ma è possibile che anche in soggetti non tipicamente celiaci il glutine abbia un ruolo nel favorire l’insorgere del diabete. Questa ipotesi, finora mai valutata, è attualmente oggetto di un nostro studio. Di fatto, in alcuni modelli animali, non celiaci, il rischio di diabete appare correlato all’assunzione di diversi alimenti, tra cui il glutine. Più controverso è il ruolo del latte vaccino. Le evidenze a favore di un ruolo del latte vaccino nella patogenesi del diabete nascono da due approcci diversi. Il primo, epidemiologico, mostra una correlazione tra il consumo pro capite di latte vaccino e l’incidenza di diabete. Ancora, il prolungato allattamento materno è stato dimostrato in grado di diminuire il rischio di diabete, mentre tanto più l’introduzione del latte vaccino è precoce, tanto più questo rischio risulta elevato. In uno studio viene calcolato che l’introduzione di latte vaccino prima dei 2-3 mesi aumenterebbe il rischio di diabete di 1.5, 2 volte rispetto a quello della popolazione. Sebbene sia possibile che il ruolo protettivo di un prolungato allattamento materno stia nelle capacità immunomodulanti di questo, un’analisi multivariata e successivi studi sembrano indicare che la precoce esposizione alle proteine del latte vaccino in sé è l’elemento di rischio più rilevante. Il secondo approccio, immunologico, studia la similitudine tra antigeni del latte vaccino ed antigeni pancreatici, nell’ipotesi che la risposta autoimmune nasca da una confusione, un inganno ai danni del sistema immune che, non riuscendo a tollerare il latte vaccino reagisce contro di esso (anticorpi anti albumnina), ma ahimé anche contro l’organismo ospite (anticorpi anti-pancreas). Questa ipotesi nasce dall’osservazione che un titolo elevato di anticorpi anti-latte è frequente in soggetti diabetici e che esiste una omologia nella sequenza aminoacidica dell’albumina sierica bovina e dell’antigene pancreatico p69. In realtà la risposta anti-alimenti del diabetico (presente frequentemente anche nel suo familiare con identico HLA) non interessa solo il latte vaccino ma anche il glutine (al di fuori della diagnosi di celiachia e dell’HLA tipico della celiachia ) suggerendo che essa sia lo specchio di un’alterata tolleranza intestinale, forse correlata ad un’alterazione della permeabilità mucosale. Anche per quanto riguarda il ruolo delle infezioni da enterovirus gli studi sono stati complicati dalla difficoltà di associare l’evento infettivo allo sviluppo del diabete clinicamente manifesto, che può seguire anche di diversi anni l’infezione. Un sostanziale passo avanti è stato compiuto in un recente studio prospettico che ha seguito comparativamente lo sviluppo di infezioni da enterovirus e la positivizzazione degli anticorpi anti insula (ICA) in 756 fratelli di diabetici, di età compresa tra i 3 e i 19 anni . In un tempo di osservazione medio di 3.4 aa gli ICA compaiono in 23 soggetti (in 11 dei quali in modo persistente). Nel 70% dei periodi di comparsa degli ICA si era verificata un’infezione da enterovirus contro il 23% dei periodi non associati ad ICA conversione. Lo stesso studio mostra altri interessanti argomenti: in famiglie con più fratelli la tendenza a fare ICA in concomitanza con un episodio gastroenteritico non è legata all’HLA di rischio del diabete ma ad altri fattori individuali non noti. Il meccanismo con cui le infezioni da enterovirus avviano o precipitano l’autoimmunità contro il pancreas non è noto. E’ possibile che un ruolo sia giocato dalla similitudine (mimetismo molecolare) tra proteine virali e pancreatiche, come è stato descritto una proteina del Coxachie virus B e l’antigene pancreatico GAD . In ogni caso, quello che preme sottolineare è ancora il fatto che gli enterovirus esercitano la loro azione a partire dalla mucosa intestinale. E’ verosimile che il diabete insulino dipendente si verifichi in soggetti geneticamente suscettibili che abbiano incontrato in tempi e/o combinazioni sfavorevoli i diversi fattori ambientali di rischio. Sembra inoltre che l’equilibrio tra autoimmunità (insulite e autoanticorpi) e tolleranza immune (inibizione della malattia) possa durare per molti anni o anche per sempre, finché non intervenga una particolare combinazione di fattori offendenti che precipiti la reazione autoimmune e dia luogo alla malattia conclamata. L’intestino e l’alimentazione nei modelli animali di diabete. Anche nei principali modelli animali di diabete autoimmune, Il ratto BB il topo diabetico non obeso (NOD), lo sviluppo del diabete è strettamente correlato alla dieta. Nel caso del ratto BB (come forse anche nell’uomo) i giochi cominciano con lo svezzamento . L’introduzione in questo periodo del glutine o, in minor misura, del latte vaccino, aumentano il rischio di IDDM ed anticipano il tempo della sua comparsa. Di particolare interesse è il fatto che questi ratti sviluppano un’importante alterazione della permeabilità intestinale proprio a partire dal periodo dello svezzamento. Non è noto se sia la tossicità degli alimenti a favorire l’aumento di permeabilità in un sistema immune mucosale predisponente o se sia invece la suscettibilità alla permeabilità a favorire l’azione tossica degli alimenti (che possono attraversare la mucosa per via paracellulare). In ogni caso, la perdita della tolleranza immune e lo sviluppo di autoimmunità che ne consegue sembrano nascere chiaramente dall’incontro tra ambiente ed intestino. Anche nell’uomo, un aumento della permeabilità intestinale è tipicamente presente all’esordio del diabete suggerendo l’importanza della mucosa intestinale nella patogenesi della malattia. Anche nel topo NOD, fattori dietetici sono stati implicati nel rischio di diabete, (Elliot, 1988, già citato). Un recente studio ha inoltre dimostrato che, a parità di altri fattori, la precoce introduzione di glutine nella dieta aumenta fortemente l’incidenza di diabete e ne anticipa la comparsa . Il sistema immune mucosale nel prediabete e nel diabete. Sebbene esistano diverse evidenze a sostegno del ruolo di fattori ambientali operanti a livello intestinale nella genesi del diabete, il legame tra questi e l’inizio della reazione autoimmune contro il pancreas non è del tutto compreso. Il ruolo della mucosa intestinale nella genesi del diabete è indirettamente sostenuto dall’azione protettiva, sempre nel topo NOD, di microorganismi capaci di influire sull’immunologia mucosale (lactobacillus casei) o dalla possibilità di prevenire il diabete inducendo tolleranza verso il pancreas per mezzo della somministrazione orale di antigeni pancreatici (vedi anche Medico&Bambino gen 1998). Di un certo rilievo nel comprendere la relazione tra fattori ambientali e diabete può essere il dato che dopo un’infezione da Rotavirus i linfociti diretti contro il virus presentano lo stesso fenotipo di origine intestinale che si ritrova anche nelle insule infiammate del soggetto diabetico (molecola di adesione a4b7 integrina e addressina MadCAM-1). L’ipotesi che stiamo valutando è che il soggetto geneticamente disposto a sviluppare il diabete abbia un aumentato rischio di rispondere in modo anomalo ad alcuni alimenti e infezioni, producendo una perturbazione dell’immunità mucosale e/o aumento della permeabilità intestinale. Conseguenza di questi disordini potrebbe essere una incapacità di mantenere la tolleranza immune non solo nei confronti di alimenti (come rivelato dalla presenza di anticorpi anti-latte ed anti-glutine), ma anche nei confronti di antigeni self (specialmente se essi somigliano in qualche loro parte ad antigeni estranei). In conclusione la patogenesi del diabete sembra legata alla combinazione di fattori ambientali con alterazioni nell’equilibrio tra tolleranza ed immunità mucosale, la cui natura è tuttora sfuggente. Esiste autoimmunità glutine-indotta al di fuori della celiachia? La domanda nasce da alcune considerazioni: – il glutine sembra avere un ruolo nello sviluppo dell’IDDM in animali che non presentano le caratteristiche immunologiche della celiachia (non producono autoanticorpi); – un aumento di permeabilità intestinale ed altre anomalie mucosali (come un’aumentata risposta della mucosa rettale dopo instillazione di gliadina) si osservano oltre che in celiaci floridi anche in loro parenti non celiaci ; L’insieme di questi dati giustifica l’ipotesi che la dieta senza glutine possa essere efficace nel ridurre il rischio di diabete almeno in una parte dei soggetti a rischio (come i familiari ICA positivi di diabetici o i familiari di celiaci (Petaros Medico&Bambino)) anche quando i marcatori sierologici della celiachia (EMA, etc) sono assenti. E’ l’ipotesi che stiamo verificando in un gruppo di parenti di primo grado di diabetici con elevato rischio di diabete ma negativi per la ricerca di anticorpi anti-endomisio. Il passaggio successivo prevede di valutare se un periodo di dieta senza glutine è in grado di far scomparire gli anticorpi diabete-correlati e/o di modificare le caratteristiche della mucosa intestinale. Conclusioni. In conclusione esistono sufficienti evidenze a favore di un ruolo patogenetico di fattori alimentari ed infettivologici nella patogenesi del diabete. Sappiamo che nel caso della celiachia il glutine è il fattore ambientale più rilevante, tanto che una dieta senza glutine avviata precocemente è in grado di portare il rischio di diabete dai livelli elevati del celiaco a quelli molto più bassi della popolazione generale. Il latte vaccino, almeno nei primi mesi, si è dimostrato correlato ad un aumentato rischio di diabete, e questo dato costituisce un ennesimo motivo per raccomandare l’allattamento materno eslcusivo nel primo semestre di vita. Infine, alcuni dati suggeriscono un ruolo del glutine nella patogenesi del diabete anche in soggetti non celiaci. L’ipotesi di un tossicità del glutine su ampie fasce di popolazione, se validata, riproporrà a breve termine l’utilità di una deita senza glutine nei soggetti a rischio e a lungo termine la sostituzione del grano attualmente in uso con nuove specie modificate.
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Gli alimenti nella patogenesi e nella prevenzione del diabete mellito insulino-dipendente. Tratto da Medico & Bambino, aprile 2000. |