Cellule staminali e diabete: Italia in prima linea nei programmi di ricerca
Agli inizi di questo nuovo decennio, tra le innovazioni annoverate dal Time come rivoluzionarie per l’healthcare nei prossimi anni, c’era anche la terapia con cellule staminali per la cura del diabete. A piccoli passi e con un avanzamento quasi silenzioso, l’approccio è infatti arrivato in clinica già da tempo, con numerose biotech che stanno inseguendo il traguardo. Alcune più indietro ancora in fase preclinica, altre lanciate in avanti già in clinica, con i primi risultati di fattibilità e sicurezza.
“Oggi – come spiega Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute dell’Ospedale San Raffaele di Milano e dello Human Islet Transplantation Programme, uno dei pionieri del trapianto di isole pancreatiche e di staminali – nessuno ha ancora dimostrato che le cellule staminali siano in grado di guarire il diabete negli essere umani (ma solo in studi preclinici). Ma siamo in una fase in cui abbiamo visto che le cellule beta derivate da staminali, sopravvivono nell’organismo e producono insulina”.
Beta is better
Nelle persone con diabete di tipo 1 e nelle forme più avanzate del tipo 2, le cellule beta delle isole di Langerhans all’interno del pancreas non producono più insulina. Nel caso del diabete di tipo 1 la causa è nel sistema immunitario stesso, che non riconoscendo queste cellule come un qualcosa di interno all’organismo, le attacca fino a distruggerle. Nonostante la scoperta dell’insulina avvenuta quasi cento anni fa (con un premio Nobel conteso) abbia trasformato il diabete da malattia mortale a cronica, si tratta pur sempre di un approccio sintomatologico e non curativo, che non risolve la patologia. Ben diverso sarebbe preservare le cellule beta nelle persone che ancora le hanno, o farle ricrescere o trapiantarle in chi non le ha più.
Una filosofia di ricerca chiamata “beta is better” che è anche alla base degli studi di Piemonti. “Se potessi avere le cellule beta invece di qualsiasi terapia sarebbe la soluzione migliore, perché svolgono il loro mestiere di produrre insulina in maniera perfetta. Perciò lavoriamo sui sistemi che vanno o a preservare le cellule beta ancora funzionanti, o su approcci di sostituzione, per esempio con le cellule staminali, uno di quelli su cui stiamo lavorando di più. Noi in collaborazione con l’University Hospital of Vrije Universiteit Brussel (Vub), siamo stati il primo gruppo in Europa – e per ora l’unico – a impiantare cellule staminali pluripotenti per la terapia del diabete di tipo 1”.
La prima volta in clinica
Lo studio a cui si riferisce Piemonti risale a gennaio del 2019, quando il Center for Beta Cell Therapy in Diabetes – coordinatore di un consorzio internazionale sulla medicina traslazionale nel diabete di cui fa parte anche il centro del San Raffaele – in collaborazione con ViaCyte, società di medicina rigenerativa, e con il sostegno di Horizon 2020, fece partire la prima sperimentazione clinica in Europa. Uno studio complementare a un altro simile già avviato negli Usa e in Canada dalla stessa Viacyte nel 2017, per i pazienti ad alto rischio che sono in lista di attesa per i trapianti di donatori.
Il trial di fase I aveva lo scopo di verificare la sicurezza di un prodotto di cellule progenitrici pancreatiche incapsulate (PEC-Direc, noto anche come VC-02), della stessa company, progettato per sostituire le cellule beta e impiantato sottocute nei pazienti con diabete di tipo 1 a una dose subterapeutica. Successivamente la sperimentazione prevede una fase II per studiare la capacità del sistema di produrre livelli di insulina adeguati a controllare i livelli di glucosio nel sangue.
Gli studi
“Lo studio di fase I/II non entra ancora nel merito dell’effetto terapeutico – precisa Piemonti – ma serve per testarne la tossicità e valutare se le cellule che sono all’interno del device sopravvivono nel tempo. Si impiantano diversi dispositivi e poi si tolgono a tempi predefiniti, per vedere cosa succede alle cellule al loro interno”. Gli ultimi dati sui trial in corso sono stati presentati da Viacyte – la società che ha un prodotto in fase più avanzata – lo scorso ottobre, in occasione del Cell & Gene Meeting on the Mesa, che si è svolto in California.
“Mentre l’ottimizzazione della procedura continua – aveva riportato l’azienda in una nota – i dati preliminari mostrano che le cellule impiantate, quando efficacemente innestate, sono in grado di produrre il peptide C circolante, un biomarcatore per insulina, in pazienti con diabete di tipo 1”. Dati che dimostrerebbero che le “nuove” cellule B funzionerebbero come previsto e in modo simile alle “originali”.
Un passaggio molto promettente, come conferma Piemonti, “perché dimostra che il procedimento è sicuro, che le celle possono sopravvivere e che possono anche differenziare in cellule che producono insulina. Ma non è ancora un approccio terapeutico – continua – non sappiamo se la quantità di cellule che ci sono dentro bastano per produrre abbastanza ormone per curare un paziente, per quanto lo possono fare ecc. Questo sarà il centro della ricerca dei prossimi anni”.
Gli altri giocatori
Viacyte però non è l’unica a correre questa gara. Proprio lo scorso febbraio la canadese Sernova ha annunciato i risultati positivi del primo paziente trattato in un trial clinico di Fase I/II con il suo Cell Pouch System, contenente cellule terapeutiche (cioè cellule donatrici umane, cellule umane corrette e cellule staminali derivate) per il diabete di tipo 1 presso l’Università di Chicago.
Il dispositivo è progettato per integrarsi con il tessuto al momento dell’impianto, formando camere di tessuto altamente vascolarizzate e favorendo la funzione delle cellule terapeutiche all’interno, che così possono rilasciare proteine e ormoni. Nelle prime valutazioni dello studio clinico di Fase I/II, tuttora in corso, Sernova ha mostrato che nel suo primo paziente trattato erano presenti livelli ematici di C-peptide sia durante i test di tolleranza al glucosio sia in condizioni di digiuno. Un buon inizio anche se per ora solo su un unico paziente.
Il caso Semma Therapeutics
Un’altra società che dovrebbe portare il suo prodotto in clinica entro il 2020 (almeno secondo i piani pre-Covid) è Semma Therapeutics, biotech fondata da Doug Melton, co-direttore dell’Harvard stem cell institute (Hsci) di Boston, nel 2014 (il nome deriva da Sam ed Emma, suoi figli, entrambi affetti da diabete di tipo 1).
La società è stata poi acquisita da Vertex Pharmaceuticals per 950 milioni di dollari lo scorso settembre. Oltre ad aver dimostrato di produrre grandi quantità di cellule beta pancreatiche umane funzionali che ripristinano la secrezione di insulina e migliorano l’ipoglicemia nei modelli animali, Semma ha messo a punto anche un nuovo dispositivo che incapsula e protegge le cellule dal sistema immunitario, consentendo un impianto duraturo senza necessità di terapia immunosoppressiva.
Infine c’è anche la statunitense Sigilon Therapeutics, su cui Eli Lilly – già ampiamente attiva nell’area diabete – nell’aprile del 2018 ha annunciato di voler investire fino a 473 milioni di dollari, per riceve una licenza mondiale esclusiva per la tecnologia Afibromer, un altro dispositivo per l’incapsulamento delle cellule beta. Nonostante la tecnologia sia ancora un pochino indietro, Rogerio Vivaldi, chief executive of Sigilon – lui stesso affetto da diabete – è convinto che la piattaforma di Sigilon possa superare i problemi degli attuali device e delle terapie cellulari da impiantare.
I punti critici
Al momento infatti restano aperti quesiti su quale sia, da un punto di vista più tecnico, l’approccio migliore. L’idea infatti si basa sull’utilizzare staminali pluripotenti derivate dalle cellule staminali embrionali o cellule somatiche riprogrammate in cellule pluripotenti “indotte” (iPS), che vengono fatte maturare – fino a un certo stadio o del tutto – in cellule beta e poi impiantate. Alcuni approcci come quello di Viacyte utilizzano una sorta di capsula che protegge le nuove cellule beta dall’attacco del sistema immunitario. Perché altrimenti verrebbero distrutte esattamente come le “originali”.
“Il device chiuso ha il vantaggio di proteggere le cellule dal sistema immunitario e non dover ricorrere alla terapia immunosoppressiva – spiega Piemonti – ma di contro le cellule non vengono raggiunte dai vasi sanguigni e hanno maggiori problemi di sopravvivenza nel tempo. Un dispositivo aperto invece permette alle cellule di essere vascolarizzate, ma anche di essere raggiunte dal sistema immunitario”.
La sorgente
Un altro aspetto che differenzia i diversi approcci in sperimentazione è il tipo di sorgente di staminali utilizzata e lo stadio di maturazione delle cellule beta: “alcuni gruppi preferiscono impiantare le cellule mature, già in grado di produrre insulina” aggiunge l’esperto. “Altri invece cellule che sono a uno stadio di differenziamento più precoce, che si differenziano in cellule beta all’interno dell’organismo”.
Tutti approcci promettenti anche secondo Piemonti, ma ancora in una fase precoce dello sviluppo clinico. Negli studi preclinici, in vitro e in modelli animali si sono rivelati tutti molto efficaci e quasi tutti in grado di curare il diabete in animali sia piccoli che grandi. Ma non è noto cosa succederà negli esseri umani. Uno degli ostacoli principali è che i device inducono una risposta da corpo estraneo che innesca una risposta infiammatoria e fibrotica del tessuto quando vengono impiantati, che tende a soffocare le cellule al loro interno.
“Si sta lavorando molto per trovare materiali che possano essere meno problematici da questo punti di vista” aggiunge Piemonti. “Ci sono anche alcuni gruppi di ricerca che immaginano di non usare per niente i device e impiantare direttamente le cellule libere o con scaffold naturali. Questo è un motivo di discussione per la transizione clinica”.
Essere invisibili
Un’altra possibilità ancora è nascondere le cellule beta al sistema immunitario. Renderle invisibili insomma con la tecnica di editing genomico, tra cui Crispr-cas9. In modo che anche un device aperto possa essere impiantato senza bisogno di immunosoppressione. Le “Invisible cells” come le chiama Piemonti, sono già state testate sia in vitro che su modelli animali con buoni risultati.
La vera sfida resta però la sicurezza negli esseri umani, perché se avere una cellula invisibile in questo caso può essere utile, di contro se per qualsiasi motivo dovesse andare incontro a mal funzionamento o trasformarsi in una lesione proliferativa, come una sorta di tumore, non essere riconosciuta dal sistema immunitario potrebbe essere un problema.
“Per usare le cellule invisibili in maniera più sicura sono stati messi a punto degli escamotage – sottolinea Piemonti – come il ‘gene suicida’, un sistema per cui in caso di bisogno basta assumere per bocca un farmaco noto e sicuro, come un antibiotico o un antivirale e la cellula programmata in presenza di quel farmaco si ‘suicida’. Ci sono già company negli Usa, che hanno prodotto cellule di questo tipo Gmp, pronte per la clinica, ma non ci sono ancora tracking di tipo clinico definito. Ci vuole più tempo, ma nel frattempo da queste prime esperienze capiremo qual è il modo per usare queste nuove generazioni di cellule negli esseri umani”.
Dal trapianto alle terapie avanzate
Al momento un’alternativa per la cura delle forme più severe di diabete che non rispondono alla terapia classica, è il trapianto di isole o di pancreas, approccio in cui Piemonti e il suo centro di ricerca hanno una lunga esperienza.
Si tratta di un’applicazione clinica in uso da oltre trent’anni, consolidata da studi scientifici e da una lunga esperienza, che però presenta i limiti della quantità limitata di organi e di una procedura pur sempre invasiva. Avere a disposizione cellule staminali pronte all’uso, sarebbe tutt’altra cosa, per via della loro sorgente infinita e dell’applicazione più semplice, più simile a un farmaco che a una procedura chirurgica, ma avanzata.
È questo il motivo per cui l’attenzione della ricerca scientifica è in gran parte concentrata su questo filone: il trapianto, sebbene sia oramai una procedura consolidata e funzionante resta una procedura di nicchia riservata a pochi casi molto selezionati, mentre il trapianto di staminali, potenzialmente un giorno potrebbe curare tutti i pazienti con diabete di tipo 1 e alcuni con tipo 2 con deficit di secrezione insulinica.