Congresso europeo di diabetologia: va in scena la ricerca dei giovani italiani. Ed è un successo
Al congresso europeo di diabetologia (EASD), che chiude i battenti oggi a Monaco per lasciare il passo alla tradizionale Oktoberfest, la ricerca italiana si è fatta grande onore, anche in versione ‘young’.
“E’ molto importante – afferma il professor Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Diabetologia (SID) – che studi di rilevanza internazionale siano condotti da giovani ricercatori supportati dalla SID, l’unica società scientifica italiana nel campo del diabete che ha lanciato un programma di scouting per giovani ricercatori”.
Tante le ricerche presentate al congresso da giovani ricercatori arrivati a Monaco grazie ad un travel grant della società italiana di diabetologia. Eccone alcune.
L’infiammazione del tessuto adiposo predispone a malattie cardiovascolari e diabete.
Nei pazienti con diabete tipo 2, un tessuto adiposo ‘mal funzionante’ porta ad accumulare grasso in sedi diverse da quelle previste come depositi di energia (il grasso sottocutaneo), come ad esempio il fegato. Questa alterazione consentedi individuare soggetti con un profilo di rischio metabolico particolarmente sfavorevole. Lo studio presentato a Monaco dalla è stato condotto su 65 pazienti obesi o in sovrappeso affetti da diabete tipo 2; tutti sono stati sottoposti ad esami per stimare il livellodi secrezione insulinica, il grado di resistenza insulinica a livello sistemico e nel tessuto adiposo (indice ADIPO-IR) è stato inoltre quantificatoil volume del grasso sottocutaneo, viscerale, di quellonel fegato e nel pancreas attraverso la risonanza magnetica.
“La forza e l’originalità di questo studio – afferma la dottoressa Ilaria Barchetta dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma – consistono nell’aver evidenziato che la presenza di infiammazione del tessuto adiposo, stimabile in maniera indiretta e non invasiva attraverso il dosaggio dell’insulina e degli acidi grassi nel sangue, permette di identificare condizioni particolarmente a rischio nelle persone con diabete tipo 2. La disfunzione del tessuto adipososi associa a steatosi epatica,fattore di rischio cardiovascolareindipendente,ad un esordio più precoce del diabete, ad un grado più marcato di insulina-resistenza e infiammazione sistemica. Oltre a rappresentare uno strumento semplice e non invasivo di stratificazione del rischio nelle persone con diabete, la disfunzione del tessuto adiposo potrebbe costituire un punto di partenza per nuovi approcci terapeutici del diabete”.
La dieta mediterranea oltre a proteggere i vasi, potrebbe facilitarne anche la riparazione
La dieta mediterranea oltre a proteggere i vasi, potrebbe forse avere anche un’azione riparatrice, visto cheaumenta il numero di cellule progenitrici endoteliali circolanti. Finora di questa dieta, patrimonio mondiale dell’UNESCO, siconosceva il ruolo di contenimento e correzione di una serie di fattori di rischio cardiovascolari (livelli di colesterolo e di glicemia, ipertensione, peso corporeo) ma la ricerca presentata all’EASD rivela un inedito meccanismo attraverso il quale la dieta mediterranea potrebbe proteggere i vasi delle persone con diabete tipo 2. Lo studio dimostra infatti che questa dieta aumenta i livelli circolanti delle cellule progenitrici endoteliali.
Lo studio è stato condotto su 215 soggetti con diabete tipo 2 di nuova diagnosi, randomizzati in due gruppi: al primo veniva consigliata una dieta di tipo mediterraneo, al secondo gruppo una dieta a basso contenuto di grassi. Sono stati misurati in tutti i partecipanti, all’inizio dello studio e a distanza di un anno, i livelli di cellule progenitrici endoteliali nel sangue. Al termine dello studio, i soggetti che avevano seguito la dieta mediterranea presentavano un numero di cellule progenitrici endoteliali significativamente maggiore rispetto al gruppo a dieta a basso contenuto di grassi. Si tratta del primo studio di intervento basato su una dieta ad aver dimostrato un effetto benefico della dieta mediterranea sulla capacità rigenerativa dell’endotelio in una popolazione di pazienti con diabete tipo 2 appena diagnosticato.
“Il nostro studio – spiega la dottoressa Maria Ida Maiorino, UOC di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Seconda Università degli Studi di Napoli – condotto in una popolazione di individui affetti da diabete tipo 2, dimostra per la prima volta che seguire una dieta di tipo mediterraneo con una modica restrizione di carboidrati (pari al 50% dell’introito calorico giornaliero) e ricca di acidi grassi monoinsaturi, si associa all’aumento dei livelli circolanti dei progenitori delle cellule endoteliali, le cellule staminali di origine midollare preposte alla riparazione dei vasi sanguigni, quandointeressati da danno ischemico.
Sono risultati – proseguela dottoressa Maiorino – importanti soprattutto per i pazienti con diabete tipo 2 di nuova diagnosi ai quali consigliamodi modificare il proprio stile di vita con dieta ed attività fisica strutturata, prima ancora di intraprendere una terapia medica. In questa categoria di pazienti, la dieta mediterranea offre protezione nei confronti di uno dei mediatori dell’aterosclerosi vascolare, migliorando la capacità rigenerativa dell’endotelio e proteggendo, nel lungo termine, i vasi sanguigni dal danno endoteliale. La dieta mediterranea grazie alla ricchezza in vegetali e olio extravergine di oliva si conferma come un regime alimentare dalle proprietà cardio-metaboliche favorevoli, soprattutto per le persone con diabete, soggetti ad alto rischio cardiovascolare”.
Un test sul DNA per prevedere quanto si dimagriràcon la chirurgia bariatrica
La ricerca di alcuni polimorfismi genetici, quali quelli del CD40 e della grelina, aiuterà a selezionare i pazienti destinati a perdere più peso con la chirurgia dell’obesità, i ‘well-responder’. Si potrà così evitare o rimandare l’intervento in quelli destinati ad avere una risposta parziale. Una strada verso una selezione genetica dei candidati all’intervento.
Il by-pass gastrico è un intervento di chirurgia bariatrica sempre più utilizzato nel trattamento dell’obesità grave. Sebbene questo intervento determini una netta riduzione del peso corporeo, alcuni pazienti perdono meno peso del previsto. Poiché questo non dipende da errori chirurgici sarebbe importante riuscire ad individuare chi non risponderà bene alla chirurgia già prima dell’intervento. “Il nostro studio – spiega Edoardo Vitolo, dipartimento di medicina clinica e sperimentale dell’Università di Pisa – ha avuto lo scopo di valutare l’influenza della presenza di alcune varianti genetiche sui risultati (in termini di perdita di peso) di un intervento di by-pass gastrico”.
Per lo studio sono stati arruolati 100 pazienti affetti da obesità grave, che sono stati seguiti per 1 anno dopo l’intervento di chirurgia bariatrica. Di tutti è stato effettuato lo studio dei polimorfismi di alcuni geni (grelina, adiponectina e CD40) e valutato il peso corporeo a distanza di 6, 26 e 52 settimane dopo l’intervento. “In questo modo – spiega Vitolo – siamo riusciti ad individuare un polimorfismo nel gene della grelina ed uno nel gene del CD40L che si associano rispettivamente ad una maggiore o minore perdita di peso dopo l’intervento. Se questo dato fosse confermato nel lungo periodo e su un più ampio numero di pazienti, questi polimorfismi, di determinazione relativamente semplice, potrebbero essere utilizzati come uno dei criteri per la selezione dei candidati ottimali alla chirurgia bariatrica”.
A fronte di una perdita di peso attesa del 40% ad un anno dall’intervento, i pazienti portatori di un particolare polimorfismo della grelina dimagriscono un 10% in più dell’atteso, mentre quelli con una particolare variante del gene CD40 dimagriscono un 7-8% in meno del previsto. Questo studio per la prima volta dimostra che essere portatori di un particolare polimorfismo della grelina predice un’ottima perdita di peso dopo l’intervento di chirurgica bariatrica, mentre essere portatori di un polimorfismo del gene CD40 (rs1126535) predice una risposta meno favorevole alla chirurgia dell’obesità. “E’ un primo passo – conclude Vitolo – per l’individuare dei marcatori che consentano di prevedere quali pazienti risponderanno meglio alla chirurgica bariatrica e potrebbe portare ad evitare l’intervento nei soggetti destinati a rispondere meno”.
Una disfunzione del tessuto adiposo predisponei parentidelle persone con diabete alla malattia
La predisposizione al diabete è scritta nei geni, ma sono degli speciali ‘interruttori’ molecolari a trasformarla in realtà. Sono le ‘alterazioni epigenetiche’,l’anello di congiunzione tra i fattori di rischio ambientali (dieta, fumo, sedentarietà) e la genetica. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Napoli ha scoperto nel grasso sottocutaneo una serie di questi interruttori molecolari capaci di trasformare in malattia la semplice predisposizione al diabete. Ma forse a breve sarà possibile rilevarli attraverso un prelievo di sangue.
“Accanto al DNA – spiega il dottor Luca Parrillo,laboratorio di Genomica del Diabete dell’Università “Federico II” di Napoli – esiste un secondo ordine di codice della vita denominato codice epigenetico. Noi non siamo il nostro DNA, ma ‘come’ il nostro DNA (genotipo) viene espresso (fenotipo)”. Dieta, esercizio fisico o fumo di sigaretta possono modificare l’espressione dei nostri geni attraverso i marker epigenetici (metilazione del DNA, modifiche istoniche), che agiscono come degli ‘interruttori’ molecolari, accendendo o spegnendo i geni, favorendo o proteggendo così dalla comparsa di una serie di malattie, dal diabete al cancro.
I risultati di questo studio suggeriscono che la predisposizione familiare al diabete si accompagna a difetti nella produzione delle cellule adipose (adipogenesi), che potrebbero dipendere da alterazioni epigenetiche, in particolare variazioni della metilazione del DNA. “Scopo del nostro studio – spiega il dotto Luca Parrillo, laboratorio di Genomica del Diabete dell’Università “Federico II” di Napoli – è stato quello di confrontare la metilazione del DNA nel genoma dei pre-adipociti (cellule di grasso non mature) di individui con familiarità per diabete, con quello di soggetti senza parenti di primo grado affetti da questa condizione. A tale scopo sono stati prelevati campioni di grasso sottocutaneo addominale; in questo modo è stato possibile evidenziare che i pre-adipociti dei soggetti con familiarità per il diabete mostravano un profilo epigenetico diverso dai soggetti di controllo. In particolare, la metilazione del DNA di geni importanti per la funzione degli adipociti (geni della famiglia Wnt, FGF, protein chinasi A) risultava ridotta nei pre-adipociti dei soggetti a rischio di diabete, rispetto ai soggetti di controllo.
Questi risultati, se confermati da altri studi, potrebbero portare all’identificazione di marker epigenetici predittivi del rischio futuro di diabete in popolazioni suscettibili. “Lo step successivo delle nostre ricerche – conclude Parrillo – consisterà nell’andare a vedere se questi cambiamenti epigenetici possano essere misurabili nel sangue, all’interno dei globuli bianchi circolanti, per poter utilizzare un semplice prelievo di sangue anziché ricorrere alla biopsia del grasso addominale”.
PRDX6, l’enzima che mette a dieta il fegato grasso
Uno studio italianopresentato all’EASDdimostra che l’enzima PRDX6 protegge dalla comparsa della steatosi epatica e dalle disfunzioni metaboliche correlate all’obesità
La scoperta potrebbe portare allo sviluppo di nuove terapie mirate contro lo stress ossidativo e la steatosi epatica, comuni nei soggetti con diabete e obesità .
L’obesità e il diabete mellito di tipo 2 (DMT2) sono malattie cronico-degenerative, associate ad alti livelli di stress ossidativo, che nel tempo producono danni a livello di DNA, lipidi e proteine, determinando a cascata malattie cardiovascolari o favorendo l’obesità. Fra gli enzimi antiossidanti, la perossiredossina 6 (PRDX6), ha un ruolo importante nell’aterosclerosi e nel DMT2; tuttavia non è ancora stato chiarito il ruolo di questo enzima nell’obesità e nella steatosi epatica non alcolica (NAFLD). “Per chiarire il ruolo di questa proteina nella modulazione della disfunzione metabolica – spiega il dottor Roberto Arriga, dell’Università di Roma ‘Tor Vergata’ – abbiamo sottoposto a dieta ricca di grassi dei topi normali (wild type, WT) e dei topi privi della PRDX6 (knockout). Dopo 6 mesi di questa dieta, i topi privi della PRDX6 hanno mostrato un maggior aumento di peso ed un quoziente respiratorio superiore (indice di ossidazione lipidica che porta alla formazione di specie reattive dell’ossigeno), rispetto ai topi normali. I topi privi della PRDX6 presentavano inoltre un marcato aumento dei livelli di glicemia ed una forte riduzione della secrezione insulinica, che si accompagnavano ad una netta diminuzione del numero e delle dimensioni delle isole di Langerhans (le aree del pancreas contenenti le cellule beta produttrici di insulina)”.
Nei topi privi di PRDX6 si è osservato anche un aumento della captazione degli acidi grassi da parte del fegato, che portava alla comparsa della steatosi. I topini privi della PRDX6 presentavano inoltre anche un profilo lipidico alterato (alti livelli di trigliceridi, VLDL e colesterolo). Infine, nel fegato e nel tessuto adiposo di topi PRDX6-/-, la produzione delle citochine leptina, TNF-α, IL-1β, IL-6, Mip1-α e Kc risultava più elevata rispetto ai normali, spia questa di uno stato pro-infiammatorio. “I risultati del nostro studio – afferma il dottor Arriga – dimostrano che la PRDX6, in virtù della sua attività antiossidante, rappresenta un nuovo interessantetarget molecolare, che potrebbe essere utilizzato per lo sviluppo di terapie preventive innovative nel diabete di tipo 2, attraverso lo sviluppo di molecole che mimino la funzione della PRDX6 o di altre in grado di stimolarne la produzione”. L’azione della PRDX6 potrebbe dunque essere sfruttata come terapia per diminuire lo stress ossidativo e la steatosi epatica, tipiche dei pazienti obesi con diabete di tipo 2.
Validato un ‘metro’ del rischio cardiovascolare per i soggetti con diabete 1
Uno strumento facilmente utilizzabile nella pratica clinica consente di individuare i soggetti con diabete di tipo 1 più esposti al rischio di complicanze micro e macro-vascolari
Definire con precisione il loro livello di rischio consente di ‘dosare’ meglio la forza degli interventi correttivi e di utilizzare argomenti più convincenti per motivarli a modificare fattori di rischio e stile di vita.
L’aspettativa di vita delle persone con diabete mellito di tipo 1 rispetto alla popolazione non diabetica è andata progressivamente migliorando. Tuttavia, due studi pubblicati quest’anno su ‘Diabetologia’, rivista ufficiale dell’EASD, indicano che l’aspettativa di vita dei pazienti con diabete mellito tipo 1 risulta ancora oggi inferiore di 10-12 anni rispetto a quella della popolazione generale, nonostante i progressi della terapia insulinica e dei sistemi di controllo della glicemia. Disporre di strumenti capaci di predire il rischio di eventi vascolari e quindi di mortalità nei pazienti con diabete tipo 1 potrebbe rendere più efficaci le misure preventive e ridurre il peso delle complicanze della malattia. Sulla base dei dati dello studio EURODIAB, un’ampia indagine epidemiologica condotta in pazienti con diabete tipo 1 in diversi paesi europei, è stato messo a punto un modello di predizione del rischio cardiovascolare basato su parametri semplici quali età, emoglobina glicata, albuminuria, livelli di colesterolo HDL e circonferenza alla vita.
Con questi semplici elementi è possibile definire per ciascun individuo un livello di rischio basso, intermedio o elevato. “Questo modello – spiega la dottoressa Monia Garofolo, U.O. di Malattie Metaboliche e Diabetologia, Centro Regionale di Riferimento del Diabete Mellito in Età Adulta, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa – è stato verificato in 774 pazienti con diabete tipo 1 relativamente giovani, con lunga durata di malattia e discreto controllo glicemico. E’ risultato che 6 individui su 10 avevano un basso rischio cardiovascolare, 3 su 10 un rischio intermedio e almeno 1 su 10 un rischio elevato. La probabilità che si manifesti un evento cardiovascolare nel corso di 10 anni, è risultata diversa nelle varie categorie di rischio, passando dal 5% nei soggetti a basso rischio ad oltre il 30% in quelli ad alto rischio. I soggetti con rischio intermedio o alto non solo avevano livelli più elevati di pressione arteriosa, colesterolo e trigliceridi, ma anche una maggior frequenza di complicanze retiniche e renali. I soggetti appartenenti alle categorie di rischio più elevate infine presentavano anche un aumento della mortalità per tutte le cause a 10 anni”. Questo modello di predizione, che utilizza caratteristiche cliniche facilmente accessibili, consente di individuare, tra i pazienti con diabete tipo 1, quelli con a rischio più elevato. Questo modello, facilmente applicabile nel singolo paziente con diabete tipo 1, potrebbe essere utilizzato nella pratica clinica per valutare il rischio individuale di complicanze micro- e macrovascolari, per modulare in questo modo l’intensità degli interventi correttivi sui fattori di rischio e delle strategie di cura, informarne i pazienti e personalizzare gli interventi terapeutici. Tutto questo potrebbe migliorare la prognosi globale e la qualità di vita delle persone con diabete di tipo 1.
Trapianto di pancreas nel diabete tipo 1: ottimi i risultati a 10 anni
L’efficacia e la sicurezza a lungo termine del trapianto di pancreas isolato nei soggetti con diabete di tipo 1 è ancora argomento dibattuto. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa è andato dunque a valutare gli esiti di questa procedura dopo 10 anni di follow-up in 60 pazienti con diabete di tipo 1 sottoposti a trapianto di pancreas tra il dicembre del 2000 e il dicembre 2005 presso il Centro Trapianti Pancreas dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana. Tutti i pazienti presi in considerazione per questo studio erano stati sottoposti a trapianto di pancreas intero e duodeno e sono stati quindi sottoposti a terapia immunosoppressiva cronica con tacrolimus, micofenolato e steroidi a basso dosaggio.
“A 10 anni dall’intervento – afferma la dottoressa Margherita Occhipinti del Centro Trapianti Pancreas dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana – la sopravvivenza dei pazienti è risultata pari al 91,7%, con un tasso di mortalità dello 0,83% l’anno (3 decessi per cause cardiovascolari, 1 per infezione virale, 1 per tumore del polmone). La funzionalità del trapianto a 10 anni è risultata pari al 63,6% e il 55% dei pazienti ha mantenuto una completa insulino-indipendenza, grazie ad una cospicua produzione di insulina endogena da parte dell’organo trapiantato.
L’intervento ha consentito in questi pazienti una normalizzazione duratura della glicemia risolvendo le complicanze acute legate al diabete e alla terapia insulinica e ha permesso di bloccare e spesso migliorare l’evoluzione delle complicanze microvascolari in buona parte dei soggetti. Anche il colesterolo totale e quello LDL sono risultati nettamente migliorati dopo il trapianto. “Questi risultati – conclude la dottoressa Occhipinti – rassicurano circa la sicurezza della procedura e al tempo stesso incoraggiano per quanto riguarda l’efficacia del trapianto nei pazienti con diabete mellito tipo 1 che ne abbiano indicazione”.
da Quotidianosanità.it