Dal sovrappeso alla dislipidemia
Il ruolo centrale dell’adiposità addominale (riconosciuto dalla nuova classificazione di “sindrome metabolica” proposta dall’International Diabetes Federation, IDF) è giustificato dall’eccessivo afflusso di acidi grassi liberi che giungono a livello portale dagli adipociti viscerali. Ciò determina un’alterazione del metabolismo epatico con conseguente aumento della sintesi di Apo-B e VLDL; inoltre si osserva un maggior rilascio di insulina nella circolazione sistemica (iperinsulinemia che sottende l’insulinoresistenza causata dall’azione delle adipochine a livello periferico). Non dimentichiamo che il tessuto adiposo è il più prolifico organo endocrino del nostro organismo: tra le citochine prodotte, il Tumor Necrosis Factor (TNF) svolge un’azione paracrina che sopprime la secrezione di adiponectina, che a sua volta è un potente insulino-sensibilizzante, prodotto in quantità ridotta quando la massa adipocitaria si espande. La dislipidemia evolve con l’aumento del peso corporeo e dell’adiposità viscerale, con riscontro di particelle LDL piccole e dense dal potente significato ateromatoso. Proprio la determinazione del rapporto ApoB/ApoA1 è stata riconosciuta di grande validità nel predire il rischio di infarto miocardico, come evidenziato dallo studio Interheart, svolto in 52 paesi (Italia compresa). Anche in recenti pubblicazioni derivate dallo studio di Framingham si è riscontrata una netta correlazione fra i componenti della sindrome metabolica e il numero di particelle LDL piccole e dense. L’aterogenicità di queste particelle è dovuta alla loro capacità di concentrarsi nello spazio sub-endoteliale, ove vengono ossidate. Questo richiama all’interno della parete arteriosa cellule infiammatorie che catturano le LDL ossidate attraverso recettori “spazzini” (scavenger), divenendo così “cellule schiumose” (foam cells). Le membrane cellulari delle cellule in corso di apoptosi continuano a richiamare cellule infiammatorie nella parete vasale; inoltre i fosfolipidi ossidati promuovono fenomeni di ostruzione modulando i fattori della trombosi. Il danno d’organo, quindi, è un fenomeno progressivo, che va combattuto al più presto e in modo adeguato. L’obiettivo finale dovrebbe essere quello di sviluppare migliori possibilità di prevedere e prevenire le patologie cardio-cerebrovascolari. Le organizzazioni scientifico-sanitarie sono giustamente preoccupate e richiamano l’attenzione del mondo medico e dei responsabili delle scelte sociali sulla necessità di avviare azioni preventive efficaci. Gli obiettivi terapeutici di una completa gestione della dislipidemia devono prevedere un approccio multidisciplinare volto a promuovere la salute sino dall’età evolutiva (bambini e giovani): bisogna, cioè, ragionare in termini di sanità pubblica. Sino dall’età scolare bisogna svolgere opera di educazione alimentare, promuovendo la riduzione dell’apporto di grassi saturi a meno del 10 per cento delle calorie introdotte; limitare l’assunzione di acidi grassi trans (restringendo anche il loro possibile utilizzo da parte dell’industria alimentare!); ridurre l’apporto di colesterolo a meno di 300 mg die. Nel caso di ipercolesterolemia LDL si potranno associare fibre e mucillagini alimentari, stanoli/steroli vegetali, proteine derivate dalla soia (contenenti isoflavonoidi). Va stimolata la pratica di almeno un’ora di attività fisica tutti i giorni, limitando le attività sedentarie (per esempio davanti al video) a meno di due ore giornaliere. La dislipidemia va identificata al più presto grazie a screening selettivi di popolazione (familiarità per coronaropatia precoce, genitore con colesterolemia totale > 240 mg/dL, presenza di fattori di rischio per cardiopatia ischemica – quali ipertensione arteriosa, fumo, sedentarietà, obesità, abuso di alcolici, uso di droghe, malattie associate con le dislipidemie – anche in assenza di storia familiare). Negli adulti, l’approccio multidisciplinare può prevedere un’azione preventiva svolta da infermieri professionali, dietisti o altri operatori sanitari specializzati in interventi educativi, secondo le linee guida internazionali. Ci deve essere una regolare interazione con il medico di medicina generale e con lo specialista, così come deve essere investita l’ASL della responsabilità di organizzare la raccolta di dati clinici individuali e di popolazione. Nel caso di ricorso a farmaci è indispensabile dosare correttamente il prodotto, facendo attenzione al raggiungimento degli obiettivi terapeutici e agli eventuali effetti collaterali; se necessario si ricorrerà ad associazioni di principi attivi. Bisogna stimolare l’utilizzo di farmaci generici o a basso costo, non dimenticando che non deve venir meno l’attenzione agli interventi sullo stile di vita anche in coloro che sono trattati con i farmaci. E’ necessario ridurre la trigliceridemia (possibilmente a valori inferiori a 150 mg/dL), facendo attenzione all’eccessiva assunzione di alcolici e zuccheri semplici. E’ indispensabile agire per aumentare i livelli di colesterolo-HDL (regolare attività fisica, moderata assunzione di vino, eventuale intervento con i farmaci). Il colesterolo-LDL deve essere ridotto a valori inferiori a 100 mg/dL nei pazienti ad alto rischio (con l’opzione di un’ulteriore diminuzione a meno di 70 mg/dL), mentre chi è a rischio lieve può mantenere valori inferiori a 130 mg/dL. A questo proposito, comunque, è opportuno valutare singolarmente le necessità di ogni paziente, facendo riferimento agli algoritmi proposti dalle carte del rischio e dalle linee guida nazionali e internazionali. Se gli interventi sul comportamento (fisico e dietetico) non permettono di raggiungere tali obiettivi, è necessario ricorrere ai farmaci. Tra le opzioni possibili, i fibrati migliorano potenzialmente tutte le componenti della dislipidemia aterogena, riducendo il rischio cardiovascolare in soggetti con sindrome metabolica, ma i farmaci capaci di ottenere (in ampi studi clinici randomizzati) i migliori risultati di prevenzione cardiovascolare primaria e secondaria (come evidenziato anche in recenti metanalisi), in entrambi i sessi, in diabetici e non-diabetici, sono stati soprattutto le statine. Nei soggetti con sindrome metabolica, la riduzione del colesterolo-LDL resta l’obiettivo primario, ma non sufficiente, per la prevenzione cardio-cerebrovascolare. Più si riduce il colesterolo-LDL, maggiori sono i benefici clinici, specie nei soggetti ad alto rischio: the lower, the better, più basso è, meglio è. Bisogna però agire per cambiare le caratteristiche delle LDL: ridurre le LDL piccole e dense, limitare l’ossidazione e la glicazione delle LDL, aumentare il colesterolo-HDL, ridurre le citochine infiammatorie. Nella terapia delle dislipidemie aterogene le statine sono i farmaci di prima scelta, seppure in attesa di conferme per associazioni “promettenti” quali statina più fibrato, statina più ezetimibe e statina più PUFA. Infine, qualora sia stato prescritto un trattamento farmacologico, occorre fare il possibile perché il paziente dia piena aderenza (compliance) alla terapia consigliata, fornendogli tutte le spiegazioni utili a ottimizzare i risultati della cura. In conclusione: l’attenzione sull’argomento è certamente alta e si coglie, da parte dei medici, una forte sensibilizzazione a occuparsi del proprio paziente in modo globale (aspetti clinici, socio-economici, relazionali, alimentari, familiari ecc.), con l’auspicato risultato di una maggiore possibilità di prevenzione e di una più consapevole opera di educazione sanitaria.
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di Antonio Carlo Bossi gennaio 2008
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