Diabete di tipo 1. Importante passo avanti nella comprensione delle cause. Da questo studio forse un vaccino per prevenirlo. Intervista a Francesco Dotta (Università Siena)
Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune e questo è una evidenza acquisita da tempo. Il danno alle preziose cellule beta produttrici di insulina è mediato dalle cellule T CD8+, ma quello che ancora non si conosce è il bersaglio molecolare che ‘attira’ questi linfociti contro le cellule insulari, provocandone la distruzione. Ma tutte queste considerazioni appartengono al passato, visti i risultati di uno studio collaborativo internazionale, nel quale l’Italia ha avuto un grande ruolo, pubblicato su Cell Metabolism.
E’ il risultato di due anni e mezzo di lavoro , dice a voce bassa, con tutta l’umiltà che contraddistingue i grandi scienziati, Francesco Dotta, ordinario di endocrinologia all’Università di Siena che, insieme ad altri colleghi italiani (Piero Marchetti dell’Università di Pisa e Gabriella Bruno dell’Università di Torino ) e a gruppi di ricerca internazionali, ha firmato uno studio fondamentale per la comprensione dei meccanismi alla base della distruzione delle cellule beta pancreatiche nel diabete di tipo 1. Questa ricerca potrebbe avere ricadute importantissime nella prevenzione di questa condizione e portare alla messa a punto di una sorta di vaccini ‘desensibilizzanti’ in grado di proteggere le cellule produttrici di insulina dalla distruzione autoimmune. Lo abbiamo intervistato per Quotidiano Sanità.
Perché questa vostra ricerca è così diversa e innovativa rispetto a quanto fatto in passato?
In questo studio collaborativo, durato alcuni anni, abbiamo cercato di comprendere quali fossero i meccanismi attraverso i quali i linfociti T citotossici, che sono quelli che distruggono le cellule beta-pancreatiche, riconoscono le beta-cellule e le distruggono.
Prima di questo studio, gli unici dati che erano stati prodotti sulla natura degli antigeni bersaglio della risposta T cellulare derivavano o da antigeni candidati (le classiche molecole riconosciute dagli auto-anticorpi) o da studi su singoli antigeni.
In questo lavoro abbiamo avuto un approccio diverso, abbiamo cercato cioè di capire quale fosse l’immagine che la beta-cellula dava di se stessa al sistema immunitario. E per fare questo, l’unico modo era condurre uno studio sistematico su tutte le molecole che venivano presentate dal sistema HLA-1 sulla superficie della cellula.
Studi condotti in passato avevano dimostrato che una beta-cellula, sottoposta ad uno stress infiammatorio, altera la propria composizione di superficie. Per mimare questa condizione abbiamo inizialmente preso una linea beta-cellulare umana e in seguito delle isole umane, le abbiamo trattate con citochine, quindi abbiamo eluito tutti i peptidi di superficie, abbiamo cioè caratterizzato l’immagine esterna che la beta-cellula dava al sistema immunitario.
In questo modo, come atteso, abbiamo trovato svariate migliaia di peptidi, ma inizialmente ci siamo concentrati su alcuni peptidi: quelli notoriamente arricchiti nell’isola pancreatica, quindi tessuto specifici e quelli che non fossero presenti nel timo (quindi che non venissero ‘tollerizzati’ da parte del sistema immunitario), cioè dei peptidi un po’ strani che facilmente venivano riconosciuti come ‘estranei’ dal sistema immunitario; infine ci siamo concentrati su quei peptidi che erano arricchiti in corso di infiammazione. Abbiamo confermato questi risultati, oltre che sulla linea cellulare, su isole pancreatiche native. Fatto questo, abbiamo trovato i peptidi candidati. A questo punto abbiamo dimostrato che effettivamente, molti di questi peptidi erano in grado di essere riconosciuti dai linfociti CD8 citotossici.
In cosa differisce la risposta immunitaria dei soggetti con diabete di tipo 1 rispetto a quella dei i volontari sani?
I peptidi che abbiamo isoalto sono riconosciuti non solo dai linfociti citotossici dei soggetti con diabete di tipo 1, ma anche da quelli dei volontari sani, dei soggetti di controllo. Questo era un dato in qualche modo atteso perché sia noi che altri gruppi di ricerca avevano già dimostrato che nel sangue periferico siamo proni a riconoscere come ‘estranei’ molti antigeni beta-cellulari.
Quello che fa la differenza nel soggetto con diabete, rispetto al soggetto normale, è che questi linfociti vanno a finire nel pancreas, cosa che non avviene nel soggetto normale. Nel soggetto normale questi linfociti si ritrovano solo nel sangue periferico, mai nel pancreas.
Abbiamo inoltre trovato che questi linfociti riconoscono essenzialmente molecole associate al granulo di secrezione dell’insulina. Quindi, oltre all’insulina stessa, altre molecole come la proconvertasi, la cromogranina, sono tutte molecole che stanno nel granulo. Come se il processo di esocitosi, di secrezione insulinica, esponesse ancora meglio sulla superficie degli auto-antigeni.
Comunque, sta di fatto che la beta-cellula, quando è infiammata, danneggiata, stressata, dà di se stessa al sistema immunitario un’immagine diversa e iperesprime delle molecole che il sistema immunitario riconosce come estranee, provocando così l’attacco auto-immune. In sostanza, è una sorta di induzione al suicidio, cioè la beta-cellula fa in modo di essere uccisa dai linfociti. Non è solo un ruolo passivo di distruzione. In qualche modo, cambiando la sua conformazione e la sua visibilità al sistema immunitario, contribuisce alla propria distruzione.
Quali ricadute terapeutiche potrebbe avere questa ricerca?
Grazie a questo lavoro abbiamo individuato molti antigeni più che candidati, quello che il sistema immunitario vede e quello che lo scatena. A partire da questo, potremmo produrre dei vaccini, non del tipo che stimola la risposta immunitaria, ma dei vaccini di tipo immunoregolatorio, quelli ‘desensibilizzanti’ che si usano nelle allergie. Si possono in questo modo produrre dei vaccini antigene-specifici, senza indurre un’immunosoppressione generalizzata, ma andando ad educare selettivamente il sistema immunitario contro questi antigeni candidati.
Ricadute anche in campo diagnostico
Possiamo inoltre andare a misurare in circolo i linfociti T diretti proprio contro quel dato antigene o pannello di antigeni. In questo modo potremmo scoprire ad esempio quando l’autoimmunità, che magari è già presente, passa in una fase di distruzione attiva. Esistono molti pazienti, che per anni rimangono anticorpo-positivi, ma non sappiamo mai quando il processo di danno beta-cellulare si scatenerà. Conoscendo invece in questo modo quali sono i bersagli dei linfociti T citotossici, quelli che danneggiano la beta cellula, possiamo stadiare meglio la fase preclinica della malattia.
I prossimi passi
In collaborazione con dei colleghi svizzeri stiamo cercando di capire meglio qual è il meccanismo attraverso il quale i linfociti T uccidono la beta cellula, cioè cosa succede una volta riconosciuta. Sappiamo che la beta cellula va in apoptosi o incontro ad un blocco funzionale ma i meccanismi molecolari ancora non sono stati definiti. Abbiamo qualche sospetto, ma ci stiamo ancora lavorando.
Poi vorremmo passare alla fase successiva di vedere questi nuovi auto-antigeni, realizzando dei kit diagnostici con questi nuovi antigeni. Ci sono alcune molecole che non vengono prodotte normalmente, ma che vengono prodotte solo dalla beta cellula ‘stressata’. E’ il caso ad esempio dell’insulina citrullinata, quindi con una modificazione post-traslazionale della proteina, o dei peptidi di fusione (pezzi di peptidi normalmente staccati che invece si fondono insieme, risultando così particolarmente immunogeni).
Cosa provoca questa infiammazione che ‘stressa’ e modifica la beta cellula?
Una delle teorie è quella dell’infezione virale, che può indurre una risposta infiammatoria in chi è geneticamente predisposto (la predisposizione genetica è importante). Questo potrebbe indurre la beta-cellula a iperesprimere questo corredo di autoantigeni. Un’altra possibilità è quella di uno stress metabolico, ma sempre nei soggetti predisposti all’autoimmunità.
Maria Rita Montebelli