Diabete e insufficienza renale. Presentato in Italia sitagliptin
Presentato in Italia sitagliptin, è da oggi disponibile anche in Italia, ad adeguato dosaggio, anche per i pazienti diabetici con danno renale moderato e severo e con malattia renale allo stadio terminale (ESRD). Si tratta di un’arma terapeutica a 360 gradi visto che nel nostro paese è l’unico inibitore della DPP-4 ad essere indicato e rimborsato sia in associazione come terapia aggiuntiva all’insulina che in monoterapia quando la metformina non è appropriata o tollerata. Il farmaco è stato presentato oggi in una conferenza stampa in cui sono intervenuti Agostino Consoli, docente di Endocrinologia dell’Università di Chieti e Pescara, Roberto Pontremoli, docente di Nefrologia dell’Università di Genova e Raffaele Scalpone, presidente Nazionale dell’Associazione Italiana per la difesa degli interessi dei Diabetici (AID)
La molecola agisce sull’asse delle incretine con il maggior numero di indicazioni approvate in Italia per i pazienti con il Diabete di tipo 2. Sitagliptin può vantare un’ampia letteratura di supporto che si traduce in un comprovato profilo di sicurezza e tollerabilità: Efficacia nel controllo glicemico mantenuta nel tempo, basso rischio di ipoglicemie e mantenimento del peso corporeo sono le chiavi di volta per una corretta gestione del diabete. “Molti studi hanno dimostrato come esista una diretta correlazione tra controllo glicemico e riduzione delle complicanze croniche del diabete soprattutto se questo miglior controllo glicemico avviene sin dalle prime fasi della malattia”, ha spiegato Consoli, dell’Università di Chieti e Pescara. “Il diabete è la principale causa di insufficienza renale terminale (end-stage renal disease) che, in tutto il mondo, è in crescita. L’aspettativa di vita di un paziente con nefropatia diabetica è già relativamente compromessa, ancor prima che si instauri l’insufficienza renale terminale”.
Un obiettivo importante, dunque, è proprio quello di prevenire la nefropatia, tenendo sotto controllo efficacemente la glicemia e l’obesità. E la terapia basata sulle incretine ha dato ampia dimostrazione di poterlo fare. “Se poi un paziente è già nefropatico, allora tutto questo assume un’importanza ancora maggiore”, ha continuato il docente. “Obiettivo di una terapia è quello di essere tempestiva, efficace, sicura, personalizzata. Deve garantire il raggiungimento di precisi target relativamente ai valori di emoglobina glicata, che devono essere raggiunti e mantenuti nel tempo con il minor rischio possibile di effetti collaterali. Ma non solo: deve essere una terapia di facile gestione per il paziente, visto che dovrà accompagnarlo per tutta la vita. L’ipoglicemia in particolare è un problema serio: per il paziente, che subisce un evento particolarmente rischioso e spiacevole ma anche per il Sistema Sanitario Nazionale, visto che è frequentemente causa di ricovero. Sitagliptin, da buon capostipite è il ‘più anziano’ della sua classe e quindi quello che conosciamo meglio e che ha evidenziato – dati alla mano – caratteristiche significative di efficacia e sicurezza”.
In particolare il farmaco avrebbe dimostrato di mantenere la risposta al trattamento che non tende a diminuire nel tempo, un minor rischio di ipoglicemia, un effetto “neutro” sul peso corporeo con una tendenza, in alcuni soggetti, al dimagrimento ed infine la comprovata bassa incidenza di eventi avversi gastrointestinali. “Tutto questo aumenta in maniera importante la compliance, fondamentale per una terapia che deve essere assunta per tutta la vita e così difficile per una terapia dalla quale il paziente non può aspettarsi un immediato sollievo dai sintomi (che nella grande maggioranza dei pazienti diabetici sono inesistenti)”, ha concluso Consoli.
Il problema dell’aderenza alla terapia diventa dunque centrale. “La vita di un diabetico è una continua ricerca di equilibrio tra autogestione terapeutica e prevenzione di comportamenti a rischio: il più delle volte questo obiettivo viene raggiunto, soprattutto a fronte di un adeguato trattamento. Tuttavia è anche una lotta proprio per evitare le complicanze e quella dell’insufficienza renale è, forse, la più temuta”, ha detto Scalpone, Presidente AID. “I pazienti diabetici sono molto indisciplinati per quanto riguarda l’aderenza alle terapie e questo per due fattori: innanzitutto, essendo il diabete una malattia silenziosa, a volte, si pensa di poter fare a meno delle terapie o di poter ‘sgarrare’ le regole di vita perché non si avvertono nell’immediatezza le conseguenze. E poi perché si tratta di una malattia cronica e l’appuntamento con la terapia ricorda quel ‘per sempre’ che fa paura. Ecco perché è molto importante che una terapia sia efficace e dia proprio un tangibile segno della sua efficacia, in primis il controllo ipoglicemico e del peso. E’ più facile fare un ‘patto’ con quel ‘per sempre’ se vedo che mi dà dei risultati. In passato con altre terapie ipoglicemizzanti gli effetti collaterali non erano certo di aiuto”.
Ma non c’è solo il problema della compliance a preoccupare gli esperti. “Ad oggi non possiamo evitare che un paziente sviluppi una complicanza come quella dell’insufficienza renale”, ha aggiunto Pontremoli, dell’Università di Genova. “Non abbiamo in mano armi terapeutiche per prevenire questo problema. Ma possiamo fare molto per rallentare l’insorgenza della complicanza e anche il decorso. In Italia tra i pazienti in dialisi per insufficienza renale terminale il diabete è al secondo posto tra le cause, dopo l’ipertensione. D’altra parte, spesso, i pazienti con diabete sono ipertesi (60%) e l’ipertensione è un fattore di rischio per il diabete. Un circolo vizioso difficile da spezzare”.
Più piccoli sono invece i numeri dei pazienti diabetici con insufficienza renale severa, ma non è un dato di cui gioire: il motivo di questa percentuale bassa dipende dal fatto che meno del 10 per cento dei diabetici con danno renale arrivano alle fasi terminali, perché la patologia diventa fatale ancora prima. “In molti casi la colpa del decesso è attribuibile a complicanze cardiovascolari”, ha spiegato il docente. “Ma è un quadro complesso, un equilibrio molto instabile. Un nefropatico è più probabile che muoia per complicanze cardiovascolari che viva così tanti anni per ricevere una diagnosi di malattia renale allo stadio terminale (ESRD). E poi ci sono tanti pazienti che hanno un danno renale asintomatico, che non sanno neppure di averlo. Ormai è certo che prima un paziente viene curato, in modo efficace, e più a lungo sopravvivrà, ma non solo. Potrebbe vedersi allontanare l’insorgenza dell’insufficienza renale e in ogni caso vederne rallentata l’evoluzione.
Insomma, forse modificare una terapia spesso non può cambiare il destino dei pazienti, ma è certo che un trattamento efficace può proteggerli sia da eventi cardiovascolari che dalla progressione del danno renale. “La terapia si basa sul miglioramento dei fattori di rischio, soprattutto ipertensione, dislipidemia e controllo glicemico. Ed è questo il primo strumento per contrastare il danno renale”, ha spiegato ancora Pontremoli. “Avere una molecola che agisce sull’asse delle incretine che può essere utilizzata sia come terapia aggiuntiva all’insulina o in monoterapia quando la metformina non è appropriata o non è tollerata è più che utile, è indispensabile, anche perché il paziente nefropatico è estremamente difficile da controllare e l’armamentario terapeutico a disposizione si riduce diventando, in alcuni casi, solo un mucchio di armi spuntate”.