Diabete: i profili sono cinque. Cure su misura anche grazie alla matematica

La matematica per curare il diabete? Sì, pare proprio di sì. Oggi si parla tanto di cure personalizzate, adattate, cioè, al singolo malato e alla sua malattia ed ecco le soluzioni proposte dai medici. Gli oncologi, per esempio, si affidano al Dna: valutano la carta di identità genetica di un tumore e, sulla base dei suoi geni, scelgono i farmaci più efficaci. I cardiologi agiscono diversamente, almeno per quanto riguarda la prevenzione di infarto e ictus: studiano la carta del rischio cardiovascolare che valuta, per ogni persona, le abitudini quotidiane, come il fumo (che è dannoso) o l’attività fisica (che è protettiva), il peso o la pressione arteriosa (se in eccesso fanno male) e intervengono con dieta e farmaci, a seconda dell’identikit del paziente.

Gli esperti del diabete hanno scelto una strada analoga: combinano le misure che riguardano l’età e il peso di una persona, la sua glicemia nelle diverse ore del giorno, quella a digiuno e, soprattutto, quella dopo il pasto (cui gli esperti danno grande importanza), la quantità di emoglobina glicosilata nel sangue (in sigla HbA1c, dà un’idea dell’eccesso di glucosio nel sangue, nei tre mesi precedenti), la presenza di obesità o di complicanze come l’insufficienza renale cronica, e stabiliscono il “profilo” del paziente affetto da diabete di tipo secondo (quello dell’adulto) su cui verrà “ritagliata” la cura.

Diabetologi come “profiler”, dunque. E pazienti che possono essere inquadrati in cinque “tipi” principali: tanti ne hanno infatti individuati gli esperti dell’Associazione Medici Diabetologi (Amd) che ne hanno parlato a Lisbona in occasione del congresso annuale dell’Easd, l’European Association for the Study of Diabetes. Un approccio “made in Italy” al problema che sta interessando la comunità scientifica internazionale e in particolare l’International Diabetes Federation che lo sta prendendo in considerazione. «Attualmente — spiega Carlo B. Giorda, presidente dell’Amd — esistono linee guida, per il trattamento del diabete, che non specificano quale farmaco scegliere per quel particolare tipo di paziente. Così abbiamo pensato di mettere a punto cinque algoritmi, che identificano altrettante tipologie di diabetici». Un esempio di “tipo diabetico”? Un paziente con iperglicemia lieve-moderata (HbcA1c 6,5- 9) che fa l’autista o il muratore e che potrebbe correre un rischio professionale legato all’ipoglicemia, cioè a un’eccessiva riduzione del glucosio nel sangue in seguito alla somministrazione di certi farmaci, che, in questo caso andranno evitati.

«Grazie a questi algoritmi — dice Giorda — possiamo sfruttare al massimo la potenza delle cure oggi disponibili». Cure che vanno cominciate il più precocemente possibile. «Esiste una sorta di “memoria metabolica” — commenta Antonio Ceriello, italiano “emigrato” a Barcellona, all’Istitut d’Investigacions Biomèdiques August Pi i Sunyer —. Se all’esordio della malattia il glucosio rimane alto per troppo tempo (e la spia è appunto l’emoglobina glicosilata), le complicanze del diabete saranno peggiori». Proprio per questo l’Amd ha dato il via, nel 2009, al progetto “Subito” che ha come obiettivo quello di intercettare i pazienti diabetici il prima possibile, trattarli nel migliore dei modi, così da evitare le complicanze a lungo termine. Il “profiling” dei pazienti diabetici prende in considerazione anche un elemento su cui gli esperti si sono focalizzati in questi ultimi tempi: la glicemia post-prandiale. «Le ricerche ci dimostrano — dice Ceriello — che la glicemia post-prandiale (il pasto stimola la secrezione di insulina, l’ormone che serve al metabolismo degli zuccheri e che è carente nel diabetico, ndr) sarebbe legata a un maggior rischio di complicanze cardiovascolari. Ecco perché è fondamentale ridurla».

Ultimo, ma non meno importante, elemento per la personalizzazione della terapia: il controllo della glicemia da parte del paziente. L’automonitoraggio serve sia all’inizio, quando un paziente deve essere “catalogato” in uno dei cinque profili, sia dopo, per il controllo dell’efficacia della terapia. Oggi i metodi più diffusi si basano su apposite strisce, dove si fa cadere una goccia di sangue: queste strisce sono, poi, “lette” da un piccolo apparecchio che indicherà il valore della glicemia. I test disponibili (oggi se ne trovano in commercio una ventina) hanno un margine di errore del 20% nel determinare il vero valore della glicemia. Forse un po’ troppo, dal momento che quanto più il dato è preciso, tanto più accuratamente si potrà adeguare la terapia. Ecco perché le industrie stanno studiando nuovi glucometri che non presentino questi inconvenienti (l’ultimo arrivato ha un margine di errore di solo il 10%), siano accurati e precisi e non interferiscano con sostanze presenti nel sangue, come certi farmaci, colesterolo o trigliceridi. «Anche la Food and Drug Administration americana — precisa Guido Freckmann dell’Università di Hulm in Germania — ha introdotto nuove regole per migliorare l’accuratezza di questi test».

 

di Adriana Bazzi

 

da Corriere/Salute