e sono 11! “dei fratelli, dei figli, del diabete”
Probabilmente 11 anni fa era una giornata come oggi a Milano: era senz’altro venerdì, e il cielo era quel grigio-azzurro tipico della nostra città.
Dopo una notte passata sulle poltrone (scomodissime!) del 1° piano, settore Q del San Raffaele, ce n’eravamo tornati a casa, un pò tristi per non essere riusciti neanche a vedere da lontano mio fratello, che durante la notte aveva ricevuto due organi nuovi che gli avrebbero garantito una nuova chance di vita.
Gli amici, chirurgo e diabetologo, che erano stati con lui in sala operatoria, il medico che lo aveva accolto in terapia intensiva erano stati chiari: l’intervento è perfettamente riuscito, ma ora andate a casa, tanto fino alle 17 nessuno può vederlo.
Solita “sensibilità” ospedaliera…
Lì ci sono due genitori (e una sorella) che stanotte vi hanno affidato la persona più cara che hanno, che sperano che gli abbiate ridato la vita e non trovate il modo, il tempo, neanche per farglielo vedere un minuto, da lontano, da dietro un vetro?
“Così è (se vi pare)” disse Pirandello. E anche noi, che a malincuore, ce n’eravamo tornati a casa.
Non sto qui a ricordare tutto ciò che è successo in quei 14 giorni… l’ho scritto e riscritto 1000 volte in 11 anni!
(Il trapianto di Lallo )
11 anni sono passati da quel 19 ottobre quando mio fratello è stato strappato alle complicanze devastanti del diabete (retinopatia, neuropatia, nefropatia) e restituito ai suoi affetti, ad un nuovo lavoro, ad un nuovo amore: ad una nuova vita.
Ieri con un’amica parlavamo di figli. Lei, diabetica, ne ha già uno, ma non può dare un fratellino o una sorellina alla sua bambina e ne soffre. Soffre per non poter avere un altro figlio, soffre per non poter “accontentare” sua figlia che vorrebbe un fratellino.
E con la mente sono tornata a tanti tanti anni fa, quando ero una giovane donna, sposata da poco.
L’esordio di mio fratello era avvenuto qualche settimana prima della laurea (conditio sine qua non per potermi sposare!).
Infatti, esattamente un anno dopo, ero in una bella chiesa di Corso Italia a Milano e diventavo una “moglie”.
Ma per anni, 6 per la precisione, non mi sono sentita di diventare anche mamma. Non mi chiedevo il perchè, c’erano sempre tante “spiegazioni”: il concorso, la carriera, l’età…
Quando è nata Diletta ho detto a mio marito che sarebbe stata figlia unica. Non c’era nessun motivo per fare un’affermazione simile: eravamo giovani, senza problemi, un parto lampo… eppure come l’ho vista ho pensato (e detto!): non ci sarà un secondo figlio.
Sono stata irremovibile per quasi 3 anni, e forse lo sarei stata per sempre se il lavoro non ci avesse portato a Houston, Tx, e ci siamo ritrovati, noi 3 insieme (esperienza meravigliosa e molto formativa), ma per la prima volta lontani dalla famiglia.
Devo essere sincera: non mi mancavano mamma e papà! Ho sempre avuto uno spirito molto libero, autonomo ed indipendente, e poi avevo 32 anni! Che fastidio quelle persone che non riescono a tagliare il cordone ombelicale! Che a 40 anni ancora vanno in vacanza con i genitori! Che prima di ogni decisione devono consultarli! E cresci, figlia!!!
Ho avuto un’educazione rigorosa, mi hanno insegnato a distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, ma soprattutto a farlo con la mia testa, non con quella degli altri: ed è questo il dono più grande che mi abbiano fatto i miei genitori, non ricchi di soldi, ma ricchissimi di umanità, di lungimiranza, di onestà, di consigli.
E ho fissato in mente quel 21 dicembre 1983, quando prima di uscire da casa per andare a sposarmi, già col velo in testa, mia madre mi disse “noi saremo sempre qui, in ogni momento se ne avrai bisogno, ma sappi che ora la tua famiglia è quella che ti sei creata con tuo marito”.
Eppure… eppure mi mancava qualcosa…
Diletta, che non aveva ancora due anni, cominciò a frequentare una scuola d’infanzia.
Come molti sapranno, negli Stati Uniti il cosiddetto permesso di maternità dura 6 settimane, le donne hanno le doglie in ufficio e dopo 6 settimane ritornano a lavoro (normalmente).
Quindi in quella struttura c’erano bambini piccolissimi. Neonati. Alcuni di pochissimi mesi … e Diletta, quando passavamo davanti alle loro stanze diceva “ne portiamo a casa uno?”
Voleva un fratellino, una sorellina.
Compravo bambolotti che bevevano da biberon e facevano pipì, bambole cui fare il bagno e cambiare il pannolino… ma lei “voleva portarne a casa uno”.
Arrivò Natale. Noi eravamo lì, al caldo di Houston e mio fratello decise di venirci a trovare per passare le feste con noi (soprattutto con Diletta!).
Per Diletta Natale arrivò quando, insieme a Babbo Natale a scuola apparve mio fratello, suo zio!
Erano settimane che le dicevamo che “Babbo Natale le avrebbe portato lo zio Lallo” e quando dopo un papà travestito da Babbo Natale entrò mio fratello, per lei fu festa!
Le vacanze passarono, mio fratello tornò in Italia.
Credo fu in quei giorni che la verità cominciò a farsi chiara in me.
Per anni non avevo voluto figli, memore del ricordo (fresco) del dolore che mia madre aveva provato quando suo figlio, il suo “bambino” si era ammalato.
Ok, il diabete non è ereditario, ma il diabete non è l’unica malattia! Avrei sopportato l’idea di vedere malato mio figlio? Avrei sofferto come mia madre? E che diritto avevo di mettere al mondo un figlio per farlo soffrire?
Ecco cosa mi aveva “fermato” per tanti anni.
Inconsciamente nel 1988 dovevo essermi convinta che la vita è un dono, che vada comunque vissuta al meglio, e che nessuno di noi alla nascita sa cosa il destino gli riserverà: sa solo che è l’inizio di un cammino, pieno di novità, di esperienze, di gioia e forse anche qualche dolore.
E non si può rinunciare alla gioia per paura del dolore!
Ma ora mi appariva chiaro anche perchè non volessi altri figli: non volevo che mia figlia potesse soffrire quanto avevo sofferto io per mio fratello. Che anche se non l’avevo mai dimostrato, minimizzando, lasciandolo solo a gestire “qualcosa che non è granchè”, forse, in fondo in fondo non ci avevo creduto e non potevo accettare di vederlo così. Saperlo malato mi faceva troppo male.
Quindi, nella mia mente, si era cristallizzato l’assunto “niente fratello = niente possibile dolore”.
Ma stando lontani avevo “scoperto” che quello che io negavo a mia figlia per preservarla da un possibile dolore, era molto di più!
Io le stavo negando la possibilità di avere un fratello da amare e da cui essere riamata!
Le stavo negando la possibilità di provare la sensazione unica di sentirsi “sorella”.
Dopo 3 mesi ero incinta, a fine anno nacque Michele, detto Cico.
Vederli ora, fratello e sorella, saperli uniti da un amore unico, forte, è la sensazione più bella della mia vita. Perchè loro sono la mia vita.
PS: e “quello” che è stato trapiantato 11 anni fà’? bè… in tanti me lo dicono e forse hanno ragione… è mio fratello, ma anche un pò il mio “terzo figlio”, perchè quella rinascita avvenuta il 19 ottobre 2001 l’ho proprio vissuta giorno per giorno, momento per momento…prima, durante, dopo.
Che il Signore lo protegga.
di Daniela D’Onofrio