Forse davvero parlerò dell’uomo

Una linea netta separa il Prima dal Dopo. Il Prima è il tempo della libertà, della possibilità, dell’apertura al mondo, degli input, delle energie in sovrapposizione, dei colori abbaglianti, dell’accumulo.

E poi c’è

questa faglia

un taglio sul foglio

un fossato profondo

il meridiano di Greenwich della

malattia.

Con un salto nel buio

sono nel

Dopo.

Il tempo del Dopo è lungo, è, per uno scherzo del destino, la gran parte della mia vita; il Dopo dura da più di 28 anni, forse è il tempo dell’Io più vero.

La malattia si chiama diabete di tipo 1 ed è una malattia beffarda.

Iniezioni/controlli glicemici/dieta/analisi/sport non bastano a “farmi stare bene”. E’ una malattia che gioca con le contraddizioni, che muta sotto agli occhi, che ti costringe a camminare a braccetto con la paura: delle complicanze, delle ipoglicemie, della notte, delle energie fragili.  Che ti chiede di essere severo con te stesso, che pretende azioni mai prive di reazioni. Da 28 anni gioco con me stessa a far finta che questo sia il migliore dei mondi possibili. Fingo che ad ogni mio sforzo corrisponda un risultato positivo, un regalo di benessere. Quasi mai è così, il gioco è crudele, ma deve continuare. Mi faccio un’iniezione, un’altra, un’altra ancora, ma la glicemia oggi non scende, forse perché sono tesa o stanca, forse perché ieri ho mangiato un po’ di più, forse sono gli ormoni, il tempo, l’umore. Cammino per aiutare l’unica arma che possiedo, l’insulina, a bruciare lo zucchero che mi avvelena il sangue e gli occhi, che frena i muscoli e affatica l’anima. A volte questo basta, a volte no, a volte agisce troppo e mi ritrovo in ipoglicemia, tremolante, bisognosa di cibo. Faccio calcoli su calcoli, quasi il mio corpo fosse una questione matematica: Più insulina? Meno? Quanta? Quando? Prima? Dopo? Durante? Più carboidrati? Meno? Quanti? Quale proporzione tra carboidrati e insulina? E i grassi? Più attività fisica? Meno? Più veloce? Più lenta? Di quanto? Più controlli? Quanti di giorno? Quanti di notte? Sono imprigionata in questa matematica imperfetta, dove gli assiomi sfocano nell’assurdo e i numeri si confondono. Nella mia malattia 2 più 2 può fare da 1 a 10. Troppi i termini incalcolabili: le sfumature del quotidiano, le infinite variabili umane. L’equilibrio è sempre precario, la soluzione trovata a fatica non sarà valida tra dieci minuti.

Qualcuno dice che “con la malattia” non si cambia e che “si può vivere una vita normale”. Mi piace la lucidità: la malattia cronica ci cambia nel profondo e la normalità assume significati differenti. Qualcun altro dice che la malattia migliora la vita, perché costringe a curarsi e a “stare in forma”. Non immagino quale sia l’idea della vita senza malattia per costoro, e non mi interessa. Non ringrazierò mai la malattia per il fatto di costringermi a combattere e ad usare le mie energie alla ricerca costante di un  benessere che dovrebbe invece essere scontato.

E’ vero per me che la malattia ti obbliga a guardarti dentro, senza distrazioni, distorsioni, illusioni.

Ti obbliga ad ancorarti nel profondo di te stesso, per non perderti.

A riconoscere i tuoi limiti per trovare le giuste strategie.

Ogni scelta implica una sottrazione e la “scelta” di “centrarmi su me stessa” mi ha sottratto un po’ di “mondo esterno”.  Mi ha regalato, però, nel tempo, una rara nitidezza rispetto all’ordine delle mie priorità. So che la cosa più importante è lo stare bene. La mente lucida, gli occhi aperti a mangiarsi il quotidiano, il corpo morbido a fondersi col mondo, la forza ad avvalorare ciò che sei. Preziosi momenti faticosamente conquistati in cui non si vuole null’altro, non si anela a niente, in cui il presente è di una pienezza gratificante. Sono momenti di facile armonia con la natura, in cui avverto il piacere dei colori netti delle colline emiliane dopo la pioggia, in cui mi faccio accarezzare dall’aria fredda sulla faccia, in cui mi abbandono ai disegni capricciosi delle nuvole in cielo, in cui mi incanto alla visione della nebbia laggiù in basso, per me che sono in alto, dentro al sole.

E ancora la mia malattia mi ha fatto riconoscere la necessità delle parole. Le parole vere, sincere, ponte da cuore a cuore. Lessi tempo fa non ricordo dove la frase “ogni parola è una vittoria contro lo sconforto”. Credo che questo sia vero, che le parole possano, sempre, salvarci e che siano le relazioni umane a dare un senso all’esistenza. Sono state parole sincere, di accoglienza e comprensione (non di compassione) a farmi superare i momenti bui, sono le parole empatiche a rendere sopportabili le sconfitte. Sono le parole che superano le distanze a dissolvere il senso di solitudine. Allora svaporano molte ambizioni, certe rincorse da girone infernale, le arrampicate al potere, i lacci dei rancori e le ansie di vendetta. Quando solo l’essenziale si rivela come vitale tutto scivola in modo naturale nel giusto ordine e ciò che non è necessario sparisce in fondo, nell’ombra.

Negli anni ho capito, risollevandomi, ora zoppicante ora baldanzosa, dalle costanti cadute e ricadute, di quanta forza ci sia dentro ad ogni uomo. Sonnecchia, nella profondità di ognuno, un’araba fenice sempre pronta a risorgere. Una realtà in grado ogni volta di sorprenderci, un’intima àncora di salvezza capace di farci rimanere sbigottiti. Qualcuno le attribuisce origini divine, per me è quanto di più meravigliosamente umano si possa immaginare.

Sembra un paradosso che la malattia, che ci obbliga a confrontarci con limiti difficili da accettare esalti, al contempo, le possibilità dell’anima umana e la sua incredibile, cristallina forza. Per ciò che mi riguarda è così. Dopo aver fissato il buio profondo con occhi spalancati e cuore in tumulto si risale. Sempre.

Un’altra cosa che “ho imparato dalla malattia” è a chiamare le cose con il loro nome. Riconoscere le proprie sensazioni, ad esempio, è qualcosa di fondamentale, è la possibilità, forse, di possedersi di più. La gioia brilla più netta, la soddisfazione di un buon esito di un esame è inebriante, la serenità di un momento tranquillo è davvero appagante. Ma anche il riconoscimento dei propri sentimenti negativi assume un senso. A volte mi sembra, col diabete, di aver avuto la “possibilità” di vivere una sensazione di
“tristezza pulita”. Quando tutti gli sforzi ancora sono stati vani, quando è davvero troppa l’esperienza, quando per l’ennesima volta l’insuccesso conferma l’impotenza degli strumenti che ho in mano e il corpo ancora e sempre mi dice che ci sono cose che non potrò mai capire, avverto una tristezza pulita, personale, intima, scevra da disperazione, speranza o rabbia. Come un nodo in gola, ma più immobile e più in basso.

Dopo così tanti anni non cerco di cacciarlo, né di rimuoverlo. Accetto questa presenza consapevole, ormai, della sua rapida dissoluzione.

XX, mi hai chiesto un testo che abbia come argomento “l’uomo”. Potevo parlare di uomini e donne, del loro alterno stare nella natura, del loro inevitabile avvicinarsi e respingersi a vicenda, della ragnatela dei sentimenti, eterna ripetizione dei secoli e alla fine ho parlato di me. L’ho fatto perché l’imprevisto fa parte della vita umana, e la malattia cronica è una delle tante facce del meduseo imprevisto. Forse qualcuno si troverà in una delle righe che ho scritto e allora vorrà dire che non sono andata fuori tema. Che davvero ho parlato dell’uomo.

 

 

di Luisa Codeluppi