La psicologia conta molto nella terapia del diabete, sia perché stress e ansia aumentano la glicemia, sia perché l’acquisizione di nuove abitudini e l’autocontrollo richiedono flessibilità e motivazione.
Come tutti sanno, il diabete è una patologia endocrina: nasce da una disfunzione del pancreas (e dei tessuti adiposi). Non sempre però si pensa alle conseguenze psicologiche di questa condizione. “Come tutte le patologie croniche, il diabete ha un forte impatto sulla psiche”, afferma Paolo Di Berardino, dirigente del Servizio di Diabetologia dell’Ospedale Civile di Atri, “esistono per esempio numerosi dati in letteratura che indicano una stretta correlazione fra malattia diabetica e condizioni psicologiche, che a loro volta influenzano la gestione della malattia impedendo spesso al paziente di seguire in maniera corretta il trattamento prescritto. Anche i disturbi psicologici possono avere effetti sull’equilibrio glicemico”. È noto da tempo per esempio che lo stress e l’ansia hanno effetti iperglicemizzanti, liberando sostanze, le catecolamine, che riducono il consumo di glucosio da parte dei tessuti. “L’Educazione terapeutica ha invece approfondito le fasi di evoluzione dell’atteggiamento del paziente di fronte alla malattia”, nota Di Berardino che fa parte del Direttivo Nazionale dell’Associazione Medici Diabetologi e ha al suo attivo una specializzazione in Psicologia che si affianca a quella in Medicina Interna.
Quali sono queste fasi? Alla diagnosi di diabete, il paziente reagisce dapprima con incredulità e rifiuto, un atteggiamento che spesso evolve in una vera ribellione ai consigli del medico; col tempo, se il Team e il paziente riescono a creare un dialogo e un rapporto di empatia, si arriva a una fase di contrattazione in cui alcuni, ma non tutti, i consigli vengono accettati. Non mancano però fasi di depressione prima di arrivare alla vera accettazione della condizione diabetica. Ovviamente non tutti i pazienti svolgono fino in fondo questo percorso. Proprio per questo occorre che il diabetologo, acquisisca le competenze psicologiche di base minime utili per supportare il paziente. In questo senso come AMD stiamo progettando dei corsi di formazione per diabetologi.
Ma l’attenzione al lato psicologico del diabete è la ‘ciliegina sulla torta’ di una terapia di successo o un suo elemento centrale? No, è un elemento centrale della terapia. Esistono fior di dati che mostrano come il compenso glicemico sia tanto peggiore quanto maggiori sono le difficoltà psicologiche e sociali del paziente. Del resto è intuitivo: ‘curare’ il diabete significa cambiare le proprie abitudini, riprendere controllo sulle proprie azioni, riflettere su quello che si fa, affrontare le situazioni con occhi nuovi, spirito critico e flessibilità. Quando c’è un disagio psicologico, la flessibilità e l’apertura sono le prime cose che vengono a mancare.
E poi c’è la questione della motivazione… Certo: in essenza la gestione del diabete richiede un cambiamento delle abitudini e dello stile di vita. Per tutti questo è difficile. Ricordiamoci che il diabete non provoca dolore, né in sé crea handicap o disagi. Non stupisce quindi che le persone con forte instabilità emotiva trovino difficile raggiungere e mantenere una buona autogestione.
Una persona depressa, usiamo il termine nel senso ampio che comunemente si dà al termine, tende piuttosto a ‘lasciarsi andare’… È probabile, ma ricordiamoci anche dell’approccio opposto: un eccesso di rigidità nel seguire le prescrizioni del medico. Alcune problematiche psicologiche si esprimono proprio attraverso un eccesso di controlli della glicemia, una dieta rigida autoimposta o imposta dal familiare…
Quali sono le conseguenze del diabete nel rapporto di coppia? Ci vorrebbe un libro per rispondere a questa domanda, anzi ce ne vorrebbero due, perché la situazione cambia se il paziente è maschio o femmina. Nel primo caso spesso il marito tende spesso a regredire alla fase infantile e si ‘mette nelle mani’ della moglie con un atteggiamento passivo e magari vittimistico. Ma questo è solo uno degli aspetti. Pensiamo alle ricadute, reali e attese, del diabete sulla sessualità per esempio, un vero tabù che incrina e minaccia le basi della relazione di coppia.
E che può essere risolto con i farmaci più recenti… Sì, ma per essere risolto deve essere affrontato sia all’interno della coppia sia con il medico. Altrimenti rimane fonte di tabù, latente depressione, mancanza di autostima.
Tornando all’alimentazione… A volte si creano situazioni che ricreano modelli genitore-bambino nelle quali la moglie – verrebbe da dire la madre – mette sotto chiave la dispensa per impedire al marito-figlio di mangiare cibi ‘proibiti’…
Il concetto di proibizione è fortemente inculcato nella psicologia del diabetico… Sì. La diabetologia e la scienza dell’alimentazione si sono evolute. Oggi preferiamo parlare di una alimentazione equilibrata nella quale tutti gli elementi, anche gli zuccheri semplici, possono trovare il loro posto. Ma il paziente è rimasto ancorato, e lo si può capire, al vecchio modello che faceva coincidere il diabete e la terapia con una astensione totale dai cibi ‘dolci’. La proibizione, come la prescrizione, ha un fascino sottile. È concettualmente semplice e in fondo deresponsabilizza. Non devo decidere niente ma solo obbedire. Non devo scegliere, ma solo seguire una lista di cose da fare sempre e da non fare mai. Il medico prescrive una dieta ferrea, il paziente ringrazia e la porta a casa. Tutti sono soddisfatti. Peccato che non funzioni mai, almeno con il diabete e l’obesità.
Se il paziente è una donna ci si può attendere una maggiore flessibilità? Le donne si appoggiano meno al coniuge che è spesso distratto o assente e si rendono quindi più autonome.
Cosa possono fare il partner, il figlio, il Team? Un Team nel quale esistano persone formate perlomeno alla tecnica del counseling, e che può contare sull’eventuale appoggio esterno di psicologi può fare molto. Non sappiamo ancora quanto, perché stiamo muovendo i primi passi, ma i dati riportati in letteratura sono assai convincenti. L’intervento psicologico, anche blando come un semplice ‘ascolto attivo’, migliora l’efficacia della relazione terapeutica con il medico, e questo ha effetti positivi sull’autogestione della malattia. Quanto al familiare di una persona con il diabete che si immagina avere qualche difficoltà di ordine psicologico, il mio consiglio è parlare, riportare alla luce. Può essere opportuno che il coniuge o il figlio accompagni il paziente agli incontri con il medico. È bene che in casa si parli del diabete in termini costruttivi e propositivi, è bene che la persona con il diabete si confronti con altri ‘pazienti’, magari che frequenti le associazioni. I familiari dovrebbero assumere un rapporto di collaborazione positiva, evitando di rimproverare in maniera eccessiva le eventuali trasgressioni alimentari del paziente. Così si aiuta davvero chi deve convivere con il diabete.
|