Il diabete, il lavoro e le nuove tecnologie.
Accolgo con particolare piacere la recentissima sentenza della Corte di Appello di Genova, Sezione Lavoro, per la straordinaria portata delle motivazioni che il Giudice del gravame offre per confermare l’ordinanza resa nel giudizio di primo grado, con cui il Tribunale di Genova, Sezione Lavoro aveva sanzionato come discriminatorio il comportamento che inibisce la piena realizzazione della persona per motivi di salute nella sua vita, in questo caso lavorativa, negandole accesso ad una determinata mansione.
E’ il caso della lavoratrice diabetica non ammessa allo svolgimento delle mansioni di capostazione.
Negarle l’accesso alla mansione di capostazione perché diabetica, sostenne il Tribunale, è condotta discriminatoria perché discrimina in base a motivi di salute, specie quando quella condizione di salute non confligge né con (il pericolo di compromettere) l’incolumità personale, né quella collettiva e non rappresenta pericolo per la sicurezza pubblica.
Ho sempre sostenuto che il diritto è lento, rispetto alla tecnologia e fa fatica ad adeguarsi alla scienza ed alle sue veloci evoluzioni tecnologiche.
Ma ho sempre creduto (e non potrebbe essere altrimenti) in quella famosa frase, attribuita a Bertolt Brecht, nel racconto del mugnaio Arnorld contro i soprusi dei potenti:
“Ci sarà pure un giudice a Berlino”.
Ebbene, quel Giudice, in primo ed in secondo grado, non a Berlino, ma a Genova, ha stabilito in sostanza che ” il rischio correlato con il diabete è costituito in generale dalle crisi ipoglicemiche sintomatiche e che tuttavia (nel caso dell’appellata) tale rischio “può dirsi praticamente nullo”, aggiungendo che “la malattia in sé, se correttamente gestita, può consentire una vita regolare senza importanti complicanze, non diversamente da altri fattori di rischio comunemente presenti nella popolazione (ad es. ipertensione, ipercolesterolemia)”.
La ricorrente, affetta da diabete mellito di tipo 1, insulino-dipendente, in buon compenso glicometabolico, “non ha mai presentato eventi ipoglicemici con sintomi clinicamente significativi, e utilizza da tempo tecnologie avanzate (registrazione continua della glicemia e infusione continua autoregolata di insulina)”. In particolare, il consulente ha valorizzato il fatto che le relazioni specialistiche in atti davano conto di controlli eseguiti regolarmente che mostravano quasi sempre una condizione di buono, o più spesso ottimo, controllo della malattia, con valori di HbA1c compresi tra 6,5 e 7,2%, ma sempre non superiori a 7,0% dopo l’introduzione degli apparecchi più recenti (sensore ….e microinfusore …..).
Ha inoltre precisato:
“Nelle relazioni dei primi anni viene ripetutamente sottolineato « Ottima consapevolezza e autogestione della patologia»; sono registrate per lo più «Rare ipoglicemie sempre avvertite già a 70 mg/dl», cioè a un livello al quale è possibile intervenire prima che si manifestino i disturbi veri e propri.
“Nella documentazione, le glicemie basali sono molto variabili; generalmente sono comprese entro la soglia considerato ottimale
di 180 mg/dl, o di poco superiori (ad es. 188, 191), tranne un rilievo del 2012 (265 mg/dl) e quello, incomprensibilmente e insolitamente elevato…della prima visita presso RFI…”
di 180 mg/dl, o di poco superiori (ad es. 188, 191), tranne un rilievo del 2012 (265 mg/dl) e quello, incomprensibilmente e insolitamente elevato…della prima visita presso RFI…”
Prosegue la Corte di Appello:
“L’elevata padronanza della malattia e della sua gestione, insieme con l’esperienza accumulata in tutti questi anni e con il grande ausilio della tecnologia, rende di fatto la probabilità di eventi ipoglicemici sintomatici praticamente nulla”.
“L’elevata padronanza della malattia e della sua gestione, insieme con l’esperienza accumulata in tutti questi anni e con il grande ausilio della tecnologia, rende di fatto la probabilità di eventi ipoglicemici sintomatici praticamente nulla”.
In tal senso va ricordato che a mente dell’art. 3, comma 3, d. lgs. 216/2003 la parità di trattamento, operante anche nella fase di accesso all’occupazione e con riferimento ai criteri di assunzione (art. 3 cit., comma 1, lett. a), va attuata nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza e che il successivo comma 3 bis dello stesso art. 3 (inserito dal d.l. 76/2013 conv. in l. 99/2013, a seguito della condanna dell’Italia per inadempimento alla Direttiva 2000/78/CE) stabilisce il dovere del datore di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli (come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità) per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.
Ed infatti, il D.lgs 9 luglio 2003, n. 216 rappresenta l’Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità’ di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (e della direttiva n. 2014/54/UE relativa alle misure intese ad agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libera circolazione dei lavoratori).
Il carattere discriminatorio della condotta, secondo la nozione di cui all’art. 2 d. lgs. 216/2003, discende non dall’atteggiamento soggettivo o intenzionale del datore di lavoro… quanto dalla oggettiva disparità di trattamento subita dall’appellata, a causa della mancata assunzione pur in presenza dei requisiti fisici di idoneità alla mansione.
Morale: la scienza si evolve e l’uso delle nuove tecnologie consente di colmare le differenze, anche in tema di lavoro, che – altrimenti – sono discriminazioni.
Mancherà poco all’ “ultimo miglio” da tutte e tutti noi atteso da tempo, ma abbiamo fatto tantissima strada ed il diritto e la giurisprudenza cominciano a percorrerla insieme a noi.
Buon Primo Maggio.
Avv. Umberto Pantanella