Il diabete in culla
Non solo insulina nel diabete neonatale
Quella che stiamo per raccontarvi è una bellissima storia scientifica di inizio millennio, tutta italiana e con un lieto fine. Come ogni storia che si rispetti, comincia con “c’era una volta”.
C’era una volta Debora, una bambina di 4 mesi, che, nonostante assumesse una grande quantità di latte, non cresceva, anzi, perdeva peso. La bambina urinava molto, ma la mamma non poteva notare tale sintomo (poliuria) perché utilizzava pannolini superassorbenti. Un giorno la madre si insospettì, perché notò che la bambina faceva di tutto per bere l’acqua del bagnetto nella quale era immersa. La poverina non sapeva che questo sintomo, che i medici chiamano “polidipsia”, cioè necessità di bere molta acqua, era di fondamentale importanza per la diagnosi. Lei, invece, si spaventò e riferì ai medici: “Mia figlia sta cercando di affogarsi con l’acqua del bagnetto!”.
Siamo agli inizi degli anni ’90 e del diabete neonatale si sapeva che è una malattia rara (incidenza di 1:400.000 – 1:500.000 nascite), che è caratterizzata da casi permanenti, che praticavano insulina per tutta la vita, da casi transitori, la cui iperglicemia rientrava entro i due anni di vita e da casi transitori-ricorrenti nei quali il diabete, dopo un periodo di remissione, ricominciava al momento della pubertà. Si pensava inoltre che quasi tutti i casi di diabete in età pediatrica avessero una patogenesi autoimmunitaria, caratterizzata dalla distruzione delle beta cellule del pancreas ad opera dei linfociti T (DM Tipo 1).
Ma “come è possibile che bambini così piccoli possano sviluppare un diabete autoimmune?”, si chiese Giampiero Stoppoloni, il Diabetologo Pediatra napoletano scomparso nel 1995.
“Occorre tempo per sviluppare una patologia autoimmune e, inoltre, il sistema immunitario di un neonato non è maturo abbastanza per poter distruggere le beta cellule”. Fu così che il Gruppo di Studio sul Diabete della SIEDP si dedicò ad una delle più stimolanti e fruttuose ricerche degli ultimi anni. Si raccolsero i dati di 111 bambini che avevano manifestato il diabete entro il primo anno di vita. Dall’analisi dei dati , non sembravano esserci in Sardegna casi di bambini che avevano ammalato prima dei sei mesi, nonostante l’isola presentasse la maggiore incidenza di diabete autoimmune del mondo. Era chiaro che il diabete autoimmune compariva solo dopo i sei mesi di vita mentre la causa del diabete comparso più precocemente doveva essere diversa dalla autoimmune. A parte i rarissimi casi di assenza congenita del pancreas, fu subito chiaro che, in questi bambini, era alterato il meccanismo di secrezione dell’insulina da parte delle beta cellule pancreatiche.
I primi studi condotti hanno consentito di evidenziare che all’origine del problema c’è un difetto genetico che determina alterazione nel “sensore” della glicemia della beta cellula pancreatica. In questo caso entrambi i genitori presentano un diabete noto come MODY-2 caratterizzato da lievi iperglicemie (superiori a 100- 110mg/dl a digiuno) e, in genere, senza necessità di trattamento. Quattro anni dopo veniva pubblicato il lavoro che ha rivoluzionato questo campo di ricerca: la scoperta di mutazioni del gene che codifica i canali del potassio e del gene dei recettori delle sulfaniluree sulla membrana delle beta cellule pancreatiche. La metà dei casi individuati in Italia che avevano ammalato entro i sei mesi di vita presentavano tali alterazioni. Questi studi hanno in parte risolto il mistero nella casistica esaminata dal lavoro italiano e si è scoperto che queste mutazioni determinano anche delle forme di diabete neonatale transitorio o, addirittura, con esordio in età adulta.
La mancata chiusura dei canali del potassio delle beta cellule in questi pazienti, comporta l’impossibilità di secernere insulina anche se le cellule sono capaci di sintetizzare l’ormone. L’emozione è stata grande quando si è dimostrato che i bambini portatori di tali mutazioni rispondevano al trattamento con alcuni ipoglicemizzanti orali (sulfaniluree) risensibilizzando le loro beta cellule e potevano, quindi, essere “svezzati” dall’insulina!
I canali del potassio non si trovano soltanto nelle beta cellule ma anche nel muscolo cardiaco, in alcuni neuroni del sistema nervoso centrale, dove sembrano proteggere dalle convulsioni, e, soprattutto, nelle giunzioni neuro-muscolari dove contribuiscono al tono muscolare. Alcuni pazienti con mutazione del canale del potassio, quindi, presentavano, oltre al diabete neonatale/ infantile anche un ritardo di acquisizione delle tappe neuromotorie e difficoltà di movimenti. L’ipoglicemizzante orale non si è dimostrato soltanto in grado di curare il diabete ma anche di avere effetto sulle giunzioni neuromuscolari aumentando il tono muscolare e correggendo i difetti di motricità.
Tra la fine del 2007 e i primi mesi del 2008 sono state identificate alcune mutazioni del gene dell’insulina (INS) come causa di diabete ad insorgenza prevalentemente infantile. Questa scoperta ha ulteriormente avvalorato il concetto che il diabete con insorgenza prima dei sei mesi di vita sia causato da mutazioni di singoli geni. Il Gruppo di Studio della SIEDP, all’avanguardia in questo campo, si è impegnato nella dimostrazione del meccanismo di malattia coinvolto nelle mutazioni INS . Grazie a esperimenti di biologia cellulare e molecolare è stato possibile accertare che le mutazioni INS che causano diabete nei primi mesi di vita, determinano un difetto di “ripiegamento” della molecola dell’insulina che, alla lunga, provoca la morte della beta cellula pancreatica. Nei pazienti italiani con diabete ad insorgenza entro i 6 mesi di vita, le mutazioni INS costituiscono il 20- 25% dei casi. Al momento, non conosciamo terapie alternative all’insulina nei casi con mutazioni INS, ma ci stiamo lavorando!
In conclusione della nostra bella storia di inizio millennio possiamo dire che, oggi, grazie ai progressi della ricerca, soprattutto italiana, la stragrande maggioranza dei casi con diagnosi di diabete entro il primo semestre dalla nascita (>80%), siano essi casi storici o nuovi casi , ha ricevuto una diagnosi molecolare.
È anche chiaro che la malattia è meno rara di quanto prima ritenuto e verosimilmente l’incidenza si attesti attorno a 1:100.000 nati. A proposito, per i più curiosi, riveliamo che la piccola Debora, protagonista della nostra storia, era portatrice della mutazione INS.
Dario Iafusco
Dipartimento di Pediatria,
Centro Regionale di Diabetologia Pediatrica “G. Stoppoloni”,
Seconda Università di Napoli
Fabrizio Barbetti
Dipartimento di Medicina Interna,
Università Tor Vergata,
Roma
Laboratorio Diabete Monogenico
Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS.