Il paradosso della normalità
Il diabete è una malattia.
Non esiste altra definizione, clinica e giuridica.
Non è una condizione; non è vero che dia luogo ad handicap o di invalidità solo in caso di complicanze; è errata l’affermazione di poter fare tutti i lavori, perché non tutti i lavori sono permessi e qualcuno è pure vietato o sconsigliato al soggetto diabetico, come ci insegna anche la medicina del lavoro.
Eppure si assiste ad una vera e propria rincorsa alla “normalità”.
Una pericolosa rincorsa alla normalità.
Forse potrà consolare il diabetico, o il giovane diabetico o i genitori di un minore diabetico, dire e sentirsi dire di non essere “ammalati”.
Non “sentirmi” ammalato non elide la realtà, la elude e la nega.
Se si nega una realtà, si nega, anzi si mistifica il valore stesso della malattia e non si coglie il valore della diversità, in favore di una presunta normalità.
È il travisamento stesso del concetto di normalità.
Forse perché se “fuori” ci mostriamo per forza normali, alla fine non saremo nemmeno malati?
È vero l’esatto contrario.
È proprio per quella malattia che dal 1987 in poi (legge 115) è impedita ogni discriminazione.
Delle due, l’una.
Non possiamo pretendere di essere considerati malati solo quando chiediamo di essere lavoratori fragili, per lo smart working, per la priorità vaccinale e per evitare lavori e turni gravosi e poi eliminare i termini scomodi, minimizzare la patologia degradandola a condizione e raccontarci pure di avere una chance in più.
Fuori non aspettano altro.
Normalità diventerà minore spesa, minori centri e minori presidi.
Minori tutele.
In nome della pericolosa rincorsa a quella stessa “uguaglianza” che vorrebbe nelle intenzioni cancellare paradossalmente una manifesta ed innegabile “diversità”.
Che invece è l’unica forza di cui disponiamo.
di Umberto Pantanella