Il trapianto di pancreas isolato
Dal 1966, anno del primo trapianto di pancreas, ad oggi, sono stati eseguiti oltre 20 mila trapianti di pancreas. Per molti pazienti che sono stati devastati dalle complicanze secondarie del diabete e che grazie a questa procedura hanno riacquistato una qualità di vita notevole, liberandosi dal peso del diabete, il trapianto rappresenta la cosa più vicina ad una cura, ma il trapianto non e’ esente da rischi: i riceventi devono sottoporsi ad un intervento maggiore e devono assumere per tutta la vita gli immunosoppressori che prevengano il rigetto dell’organo. Fino a pochi anni fa’, curare il diabete mediante un trapianto di pancreas era giudicata un’opzione ingiustificata e persino pericolosa. Ora, dopo una decade di controversie sulla validità del trapianto di pancreas, la procedura e’ stata accettata come l’unica soluzione per pazienti con diabete mellito insulinodipendente e nefropatia avanzata (trapianto combinato rene-pancreas). E per il trapianto di pancreas isolato? Chiediamo l’opinione del Dr Roberto Verzaro, responsabile del programma trapianti di pancreas presso l’IsMeTT di Palermo, Assistant Professor of Surgery presso la University of Pittsburgh School of Medicine, Pittsburgh – Pennsylvania USA e membro dell’American Society of Transplant Surgeons. D: Dr Verzaro, a chi è consigliato il trapianto isolato di pancreas? R: Vorrei fare una premessa: allo stato attuale è forse più utile parlare di una terapia sostitutiva delle cellule beta (le cellule che producono insulina) e non semplicemente di trapianto di pancreas isolato. Mi spiego meglio. La terapia sostitutiva delle cellule beta può essere ottenuta mediante trapianto di pancreas isolato o mediante innesto d’isole (insule) pancreatiche. Nella maggior parte dei casi le indicazioni per il trapianto d’organo intero (pancreas isolato) o di insule si sovrappongono. Spetta al team di medici che seguono il paziente stabilire poi se, in un particolare paziente, sia più indicato il trapianto di pancreas o l’innesto di insule. In entrambi i casi al paziente diabetico vengono rispettivamente trapiantate o innestate le cellule che producono insulina. Da questa premessa è già intuibile come tale terapia sostitutiva deve essere riservata ai pazienti diabetici nei quali il pancreas ha smesso di produrre insulina, principalmente i pazienti diabetici di tipo I. Solo in questa categoria di pazienti ha infatti senso sostituire la funzione delle cellule beta, fare in modo cioè che l’insulina venga nuovamente prodotta. Detta così la storia sembra semplice. Se analizzata in dettaglio risulta più complessa. Si giovano di un trapianto di pancreas isolato i pazienti diabetici di tipo I (quei pazienti in cui il pancreas ha smesso di produrre insulina, con C peptide non dosabile nel siero) i quali però nonostante un trattamento insulinico aggressivo (vedi per esempio il trattamento con microinfusori) non riescono a controllare le complicanze della malattia diabetica oppure vanno incontro a complicanze metaboliche gravi (soprattutto ipoglicemie improvvise non riconosciute). Mi riferisco in primo luogo a quei diabetici di tipo I con, ad esempio, una nefropatia diabetica iniziale od ad una retinopatia proliferativa non controllabile. In questi pazienti un doppio trapianto rene-pancreas sarebbe ingiustificato (data la buona funzionalità renale), ma sicuramente è giustificato un trapianto di pancreas isolato con l’intento di rendere il paziente euglicemico (con glicemia normale) e arrestare lo sviluppo delle complicanze. In secondo luogo mi riferisco a quei pazienti diabetici che nonostante un’attenta e precisa somministrazione d’insulina hanno frequenti crisi ipoglicemiche non riconosciute o frequenti episodi coma iperglicemico. Anche qui, un intervento chirurgico come il trapianto di pancreas è giustificato dalla necessità di prevenire variazioni incontrollabili della glicemia potenzialmente fatali. In tutti questi casi il beneficio ottenibile con un trapianto giustifica il rischio chirurgico ed il rischio connesso ad una terapia immunosoppressiva. Ed è importante capire che questa categoria di pazienti deve assolutamente sottoporsi ad una visita presso un centro trapianti di pancreas o d’isole. In essi, infatti, un trattamento sostitutivo delle cellule beta ha come scopo quello di salvare la vita del paziente e non già quello di evitare le somministrazioni quotidiane d’insulina. D: quali sono i criteri di eleggibilità per essere inseriti nelle liste d’attesa per ricevere un trapianto di pancreas? R: Brevemente: Diabete di tipo I, età sotto i 40-45 (anche fino a 50 anni in alcuni centri), condizioni cliniche generali buone, buona funzionalità renale, assenza di neoplasie o infezioni in atto, gravi complicanze del diabete in progressione. D: quali sono i criteri di selezione dei donatori? R: Il donatore di pancreas è un donatore cadavere. Donazioni da vivente sono state eseguite in USA, ma sono limitati a casi estremamente selezionati e, non applicabili su larga scala. D: quando un paziente diabetico dovrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di accedere al trapianto? R: quando, nonostante una terapia insulinica appropriata (ripeto: che ha anche valutato la possibilità dell’uso di microinfusori) ed una corretta igiene di vita (dieta ed attività fisica), nel corso della malattia diabetica, iniziano a presentarsi gravi complicanze o incontrollabili variazioni della glicemia talmente gravi da compromettere la vita stessa del paziente. I progressi ottenuti con il trapianto di pancreas permettono e indicano, infatti, un trapianto isolato di pancreas prima che le complicanze della malattia abbiano creato severi danni ad organi (vedi il rene per esempio). In altre parole non bisogna rivolgersi ad un centro trapianti quando la malattia è molto avanzata, ma in una fase più precoce. Spetta al diabetologo che segue il paziente indicare il momento per rivolgersi ad un centro trapianti. Da qui l’importanza di una profonda conoscenza da parte del diabetologo della problematica trapiantologica del pancreas, e delle esatte indicazioni ai vari tipi di trapianto (isolato, combinato con il rene ed insule) e di una stretta collaborazione con i centri trapianto. D: come viene valutato il rischio chirurgico prima del trapianto? R: in maniera molto accurata proprio perché il trapianto di pancreas è un intervento complesso ed impegnativo clinicamente per il paziente. In particolare nel diabetico la funzione cardiaca può essere compromessa senza che il paziente abbia mai manifestato sintomi. D: quali sono le varie tecniche di trapianto? R: Fondamentalmente le tecniche di trapianto di pancreas isolato sono tre. Per comprendere le varie tecniche e, perché ve ne è più di una, è importante fare una premessa. Il pancreas è un organo costituito da due parti inestricabilmente connesse tra loro. La parta endocrina (che è quella che interessa trapiantare, quella cioè dove si trovano le cellule beta produttrici d’insulina) e la parte esocrina (quella che produce enzimi digestivi, tra cui le amilasi e la cui funzione non interessa ai fini del trapianto, ma è inevitabilmente presente nel trapianto di pancreas). La parte endocrina è costituita da cellule produttrici di ormoni (tra cui l’insulina) le quali rilasciano il prodotto della loro secrezione direttamente nel sangue che bagna le cellule. Da come si drenano queste secrezioni si distinguono due fondamentali tecniche di trapianto: quella che prevede la connessione (anastomosi) del duodeno del donatore con la vescica urinaria del ricevente e quella che prevede la connessione (anastomosi) del duodeno del donatore con un tratto dell’intestino del ricevente. Nel primo caso le secrezioni digestive del pancreas del donatore vengono raccolte in vescica, rimangono inattive e si eliminano all’esterno con le urine. In entrambi i casi devono essere effettuate le connessioni vascolari (arteria e vena) del pancreas trapiantato in modo che l’organo riceva sangue (ricco d’ossigeno: arteria) ed elimini sangue ricco di sostanze ormonali prodotte (tra cui la preziosa insulina) ed elementi di rifiuto delle cellule (vena). Nel pancreas nativo, non trapiantato, il sangue venoso passa attraverso una grossa vena (la vena porta) nel fegato e poi nella circolazione venosa generale. L’insulina prodotta dal pancreas passa quindi prima nel fegato e poi nel resto dell’organismo. In caso di trapianto di pancreas la vena porta (la vena che raccoglie tutto il sangue del pancreas da trapiantare) si può collegare con una vena della circolazione generale (ad esempio la vena iliaca esterna) o, alternativamente, con la vena porta che va direttamente al fegato. Questi due diversi modi di collegare il sangue venoso del pancreas trapiantato danno luogo a due diverse tecniche chirurgiche. Le combinazioni con le anastomosi del duodeno prima descritte sono però obbligatorie: se si collega il duodeno alla vescica è, per motivi tecnici, obbligatorio collegare la vena del pancreas ad una vena della circolazione generale (di solito la vena iliaca esterna). Se viceversa si decide di collegare il duodeno ad un tratto d’intestino del ricevente la vena principale del pancreas del donatore (vena porta) si può collegare (anastomizzare) o con una vena della circolazione generale (vene iliaca esterna di solito) o con una vena del ricevente che porta il sangue direttamente al fegato (di solito la vena mesenterica o la vena porta). Quindi ecco le tre combinazioni possibili e quindi le tre tecniche fondamentali di cui parlavo prima: 1) duodeno in vescica con anastomosi venosa alla circolazione generale. 2) duodeno in intestino con anastomosi venosa alla circolazione generale. 3) duodeno in intestino con anastomosi venosa alla circolazione portale (quella che porta direttamente al fegato). Il collegamento arterioso (sangue ossigenato) per il pancreas da trapiantare non cambia nelle tre tecniche e di solito si usa un’arteria iliaca esterna o iliaca comune, più vicino all’aorta (vedi figura Ricostruzione Tac). Esistono poi altre piccole varianti di tecnica di trapianto come la sede d’incisione: in regione inguinale o addominale, la prima possibile solo in caso d’anastomosi tra duodeno e vescica, la seconda obbligatoria in caso anastomosi venosa portale ma fondamentalmente la differenza tra una tecnica ed un’altra dipende dalle connessioni del duodeno e della vena del pancreas del donatore. Tutto questo spiega perché alcuni pazienti trapiantati controllano il dosaggio delle amilasi nelle urine (amilasuria) ed altri no. Se il duodeno del donatore è collegato alla vescica le amilasi prodotte dal pancreas del donatore si riversano, attraverso il duodeno, in vescica e sono quindi dosabili fornendo preziose informazioni. Se, viceversa, il duodeno del donatore è collegato all’intestino del ricevente le amilasi del pancreas del donatore non si troveranno in vescica. Ciascuna tecnica ha i suoi vantaggi e svantaggi. Spetta al chirurgo scegliere la più appropriata per il paziente, in base anche alla familiarità e l’esperienza del chirurgo con le diverse tecniche. Magari in un altro incontro potremmo approfondire le differenze fisiologiche tra le varie tecniche. Qui basti dire che i dati registrati sull’ International Transplant Registry al momento non associano una tecnica a percentuali di sopravvivenza dell’organo trapiantato o del paziente maggiore rispetto alle altre. D: cosa succede quando il paziente esce dalla sala operatoria? R: Di solito il paziente viene estubato in sala operatoria al termine dell’intervento (viene cioè rimosso il tubo endotracheale con il quale era connesso al ventilatore durante l’intervento) e trasferito nel reparto di terapia intensiva. Qui vengono costantemente monitorizzati i parametri vitali (frequenza cardiaca, respirazione etc.) ed i valori di glicemia ogni ora per le prime 12 ore. In questa fase il paziente è sveglio ma certamente poco collaborante ed interagisce minimamente. Se le condizioni cliniche e logistiche lo consentono può già ricevere una breve visita da parte dei familiari. Il paziente ha in sede addominale i punti di sutura coperti da apposita medicazione e, se necessario, un drenaggio (un tubo di materiale sintetico che drena contenuto liquido vicino alla sede d’impianto dell’organo e lo porta all’esterno). Un sondino nasogastrico (un tubicino abbastanza fastidioso che scende nello stomaco passando attraverso una narice) è la regola almeno nelle prime 24 ore post operatorie. Lo scopo di tale tubicino, odiato da tutti i pazienti, è quello di evitare l’accumularsi di secrezioni nello stomaco che potrebbero essere aspirate (polmonite!) o causare vomito in un paziente con riflessi ancora poco pronti a causa dell’anestesia generale. In alcuni centri è norma eseguire in terapia intensiva un’ecografia color doppler per valutare lo stato di perfusione dell’organo trapiantato (quanto sangue riceve e come lo riceve). La glicemia è il parametro più semplice da monitorizzare ma è anche quello più utile per seguire la funzionalità del pancreas appena trapiantato, soprattutto se in sala operatoria, dopo la riperfusione dell’organo, la glicemia si è normalizzata. In questo caso, ogni aumento della glicemia nel postoperatorio deve essere attentamente valutato per escludere problemi di vascolarizzazione del pancreas trapiantato (flusso di sangue al pancreas). D: come procede il post-trapianto? R: Appena trasferito in reparto di degenza regolare il paziente inizia a deambulare (di solito il paziente è mobilizzato nelle prime 24-48 ore) e ad alimentarsi con una dieta liquida e via via più regolare (in caso di drenaggio intestinale si aspettano 72 ore prima di alimentare il paziente). Il catetere vescicale è rimosso già nelle prime 24 ore in caso di anastomosi intestinale, mentre in caso di anastomosi vescicale rimane in sede per almeno 5 giorni. Anche il sondino nasogastrico viene rimosso nelle prime 24-48 ore. Il paziente esegue controlli ematochimici giornalmente per i primi 5-7 giorni con controlli frequenti della glicemia (almeno ogni 6 ore). In quinta-settima giornata se tutto procede per il meglio il paziente può essere dimesso. Eseguira’ controlli ambulatoriali con frequenza giornaliera o a giorni alterni secondo le condizioni per la prima settimana e con il passare del tempo con frequenza sempre meno assidua. Dopo un periodo di convalescenza di circa trenta giorni gradualmente il paziente ritorna a svolgere le attività pre-trapianto e, salvo rare eccezioni, senza limitazioni. D: quali le complicanze possibili nel post-trapianto? R: Per semplicità distinguiamo complicanze chirurgiche e complicanze mediche. Di solito le complicanze chirurgiche sono precoci (si manifestano cioè nell’immediato periodo post-operatorio) e le complicanze mediche sono tardive (si manifestano cioè a distanza di circa un mese dall’intervento). Detto questo, solo per semplificare l’argomento, passiamo in rassegna le complicanze chirurgiche, quelle dovute ad errore tecnico o, anche, quelle complicanze che richiedono un intervento invasivo (chirurgico, quasi sempre) per poter essere corrette. Parlando di tecnica chirurgica abbiamo spiegato come il pancreas del donatore per poter essere trapiantato deve avere arterie e vene collegate con le rispettive arterie e vene del paziente ricevente. Ebbene ognuno di questi collegamenti (detti tecnicamente anastomosi, ricordate?) può andare incontro ad un problema tecnico: restringimento detto stenosi o chiusura completa detta trombosi. Nel primo caso, il pancreas soffre un ridotto apporto d’ossigeno nel caso di stenosi dell’arteria o un ridotto scarico di sangue nel caso di stenosi della vena. Nel secondo caso, più grave, l’apporto d’ossigeno attraverso l’arteria o lo scarico di sangue attraverso la vena sono interrotti completamente. Queste elencate finora sono le complicanze vascolari (a carico cioè dei vasi sanguigni). Tra le complicanze chirurgiche esistono poi quelle legate al collegamento delle secrezioni esocrine del pancreas (gli enzimi digestivi di cui si è parlato precedentemente). L’anastomosi del duodeno del donatore con la vescica o con l’intestino del ricevente può anch’essa andare incontro a deiscenza o fistola (soluzione di continuo attraverso la rima anastomotica). Bisogna però distinguere se il duodeno del donatore è anastomizzato alla vescica o all’intestino del ricevente. In entrambi i casi il contenuto del duodeno del donatore (con gli enzimi digestvi) si riversa in addome. In caso d’anastomosi con l’intestino del ricevente la clinica però e più grave perchè anche il contenuto intestinale del ricevente si riversa in addome. Quasi sempre è necessario reintervenire. In caso di drenaggio vescicale un catetere urinario può aiutare a far guarire la fistola senza intervento chirurgico. La soluzione di continuo dell’anastomosi può, infatti, chiudersi da sola (sfruttando i processi di cicatrizzazione dei tessuti) con il passare del tempo, specie se non sopraggiunge un’infezione. Un’ultima complicanza chirurgica che merita di essere menzionata in questa sede è la pancreatite. Il pancreas è una ghiandola molto fragile, e per motivi diversi, dopo il trapianto può andare incontro ad un processo di distruzione causato proprio da quegli enzimi digestivi (tra cui le amilasi) che sono presenti all’interno della ghiandola stessa. In questi casi un intervento chirurgico è necessario e deve rimuovere il pancreas appena trapiantato per evitare al ricevente complicanze gravi. Le complicanze mediche di un trapianto di pancreas sono fondamentalmente legate agli effetti collaterali dei farmaci immunosoppressivi. Mi riferisco in particolare alle infezioni post-trapianto ed allo sviluppo di neoplasie. Un particolare gruppo di complicanze mediche si osserva nei pazienti trapiantati con drenaggio del duodeno del donatore in vescica. In questi pazienti è possibile osservare oltre ad infezioni delle vie urinarie recidivanti, episodi d’acidosi metabolica (perdita di bicarbonati emessi dal pancreas in vescica) ed episodi di deidratazione (perdita di liquidi prodotti dal pancreas in vescica) con, a volte, comparsa di crisi ipotensive. D: dopo quanto tempo dal trapianto il paziente riprende la sua vita “normale”? R: E’ molto variabile e dipende dalle condizioni cliniche del paziente al momento del trapianto, dall’intervento chirurgico, dalla presenza di complicanze chirurgiche o mediche post trapianto ed infine da paziente a paziente. Nei casi non complicati (che sono la maggioranza) il paziente viene dimesso una settimana dopo l’intervento, esegue controlli ambulatoriali nel primo mese con frequenza bisettimanale e, via via con frequenza minore. Di solito già al secondo mese post trapianto il paziente riprendere gradualmente le sue attività pre-trapianto. Da considerare però che il trapianto di pancreas (come quello di qualunque altro organo) rappresenta un impegno da parte del paziente. Impegno a condurre una vita secondo precise regole, ad assumere farmaci con regolarità e a sottoporsi a controlli medici. Tutto questo conducendo una vita normale e soprattutto consapevole d’essere euglicemico, cioè avere una glicemia regolata fisiologicamente dal nuovo pancreas, situazione che allontana le temibili complicanze della malattia diabetica! D: quali sono i dati in suo possesso sui trapianti di pancreas isolato? R: I dati che si conoscono sono quelli pubblicati dal registro internazionale dei trapianti di pancreas tenuto presso l’Università’ del Minnesota disponibile on line (www.itpr.umn.edu). I dati pubblicati in questo sito vanno pero’ analizzati. Innanzitutto bisogna distinguere tra sopravvivenza del paziente e sopravivenza dell’organo trapiantato. Bisogna poi distinguere le sopravvivenze in base al periodo in cui il trapianto è stato effettuato. I dati del registro internazionale dei trapianti dimostrano, infatti, come le sopravvivenze degli organi trapiantati siano migliori negli ultimi anni. I dati complessivi invece risentono delle sopravvivenze non brillanti ottenute negli anni inziali, periodo nel quale la tecnica chirurgica del trapianto di pancreas non era ancora perfetta e i farmaci immunosoppressori diversi da quelli impiegati ora. Di fatto non sappiamo quanto sia longevo un pancreas trapiantato nel 2005 o 2006. Questo perché nuovi farmaci immunosoppressori, più efficaci, sono stati introdotti solo pochi anni fa e perché le tecniche chirurgiche e d’assistenza perioperatoria sono state perfezionate solo recentemente. Questi i dati relativi agli ultimi anni (cosiddetta ultima era o era 5 nel registro internazionale trapianti: 1999-2002) per i pazienti sottoposti a trapianto di pancreas isolato: D: qual è il periodo più “rischioso” per il rigetto? R: Per semplicità non distinguo il rigetto acuto da quello cronico o più specificatamente tra i vari tipi di rigetto. Basti sapere che in caso di trapianto di pancreas isolato il rigetto rimane un pericolo costante anche dopo il primo anno (a differenza di quanto accade nel trapianto combinato rene pancreas dove tale pericolo si riduce notevolmente dopo il primo anno). D:Dr Verzaro, ci parli degli immunosoppressori: quali, perché vanno usati, per quanto tempo? R: Rispondo partendo dall’ultima domanda. Vanno usati per tutta la durata della vita dell’organo trapiantato a meno che non esistano gravi motivi clinici che consigliano l’interruzione della loro somministrazione (di solito infezioni gravi o tumori). Gli immunosoppressori sono molti e, schematicamente, si possono dividere nelle seguenti categorie. I farmaci steroidei, usati sin dagli inizi della trapiantologia. Quattro gli steroidi usati: idrocortisone, prednisone, prednisolone e metilprednisolone. Sono farmaci ad azione antinfiammatoria potente usati in passato ed in parte, anche attualmente, come terapia di mantenimento in tutti gli schemi d’immunosoppressione. La loro azione immunosoppressiva è dovuta alla loro capacita di bloccare i fenomeni basilari della risposta immunitaria (legame tra anticorpo e complemento, riduzione della sintesi di fattori chiave come citochine ed interferone). Proprio per questa loro azione “ad ampio spettro” causano un blocco molto ampio delle difese immunitarie e se vogliamo poco selettivo. Recentemente il loro uso non è più ritenuto indispensabile e, proprio nei trapianti di pancreas, la maggior parte dei protocolli immunosoppressivi non usa farmaci steroidei. Questo perché il loro uso è associato a numerosi effetti collaterali tra i quali principalmente lo sviluppo di diabete. Gli steroidi causano poi ritenzione idrica, iperlipidemia, cataratta, osteopenia (fragilità ossea), amenorrea (assenza di mestruazioni nella donna), acne, irsutismo (aumento della peluria e della loro distribuzione nel corpo) e come già detto suscettibilità alle infezioni. In alcuni pazienti trapiantati e in terapia steroidea la qualità della vita può inoltre essere negativamente modificata da alterazioni del tono dell’umore che gli steroidi causano: instabilità emotiva, irritabilità, insonnia e psicosi maniaco-depressiva. Un’altra categoria di immunosoppressivi è rappresentata dai cosiddetti inibitori delle calcineurine. La ciclosporina A e il Tacrolimus (conosciuto anche con la sigla FK506). Questo gruppo di farmaci ha un’azione più selettiva nel diminuire la risposta immunitaria rispetto a quella steroidea. Agisce bloccando specificatamente l’azione dei linfociti T, inibendo la produzione di una sostanza fondamentale nel fenomeno del rigetto (l’interleuchina IL-2). Entrambi possono causare neurotossicita’ (danno al sistema nervoso) e nefrotossicita’ (danno alla funzione renale). Questi effetti collaterali sono nella maggior parte dei casi reversibili e correlati con alte dosi del farmaco. Un altro importante effetto collaterale di questa categoria di farmaci è l’iperglicemia. La ciclosporina può inoltre causare irsutismo e iperplasia gengivale. Il sirolimus ed il suo derivato everolimus sono farmaci immunosoppressori introdotti solo da qualche anno nella pratica clinica con un meccanismo d’azione diverso da quello della ciclosporina e del tacrolimus. Agiscono all’interno della cellula (linfocita del sistema immunitario) bloccando il ciclo di replicazione cellulare. Hanno il vantaggio di non causare tossicità renale e neurologica ma la loro azione di prevenzione del rigetto non è efficace come quella della ciclosporina o del tacrolimus. Di solito vengono usati in combinazione con altri farmaci permettendo di ridurre quindi le dosi di farmaci più tossici. Un altro gruppo di farmaci con azione d’arresto della replicazione cellulare è rappresentato dalla ormai abbandonata azatioprina e dal micofenolato mofetil (conosciuto con la più facile sigla MMF). In particolare il micofenolato mofetil ha un’azione relativamente specifica e selettiva sui linfociti T (le cellule del sistema immunitario predisposte all’aggressione dell’organo trapiantato). Non è molto potente ed è usato quasi sempre in combinazione con altri farmaci immunosoppressori. Può causare nausea, vomito dolori addominali e, soprattutto, leucopenia (diminuzione dei globuli bianchi nel sangue). Un’altra importante categoria di farmaci immunosoppressori è poi rappresentata dagli anticorpi policlonali e monoclonali. Gli anticorpi monoclonali sono diretti specificatamente a cloni di cellule linfocitarie in proliferazione con un ruolo attivo nella risposta immunitaria. Più in particolare i differenti anticorpi monoclonali a disposizione attualmente, si legano a differenti proteine presenti sui diversi linfociti bloccando cosi selettivamente quel particolare clone (gruppo di cellule in espansione). Il blocco è quindi più specifico e selettivo. Questi anticorpi hanno nomi difficili. Il primo anticorpo monoclonale disponibile (OKT3) deriva da animali di laboratorio. I nuovi anticorpi monoclonali sono invece “umanizzati” ottenuti con tecnica di chimerismo e biologia molecolare con contenuto di proteine animale bassissimo. Ricordiamo tra questi il daclizumab ed il basiliximab. Altri numerosi farmaci immunosppressori sono allo studio sia clinico che di laboratorio ma una loro elencazione in questa conversazione mi sembra eccessivo, visto che per molti di essi non si conoscono ancora le potenzialità cliniche. D: quali gli effetti collaterali? R: Sono numerosi ed in parte ne abbiamo già parlato descrivendo i singoli farmaci. E’ curioso notare come la maggior parte degli immunosoppressori siano anche diabetogeni, siano cioè tossici per le cellule beta del pancreas produttrici d’insulina, proprio quelle cellule che devono proteggere dal rischio di un rigetto. Qui vorrei però soffermarmi su due fenomeni associati strettamente con l’uso prolungato di farmaci immunosoppressori. Il rischio di contrarre infezioni e il rischio di sviluppare tumori (cutanei e del sistema linfatico). I tumori più frequentemente osservati nella popolazione dei pazienti trapiantati sono i tumori cutanei, i linfomi ed il sarcoma di Kaposi. Un cenno a parte meritano le malattie linfoproliferative del sistema linfatico (PTLD: Posttransplant Lymphoproliferative Disorders), un gruppo di malattie molto eterogeno che si riscontra nei pazienti trapiantati con una frequenza che va dallo 0.8% al 20%. La malattia PTLD comprende sia semplici iperplasie dei linfonodi sia tumori dei linfociti B (cellule del sangue) molto aggressivi. Per quanto riguarda il rischio di contrarre infezioni e/o di sviluppare tumori è necessario però, fare alcune precisazioni. Il rischio di queste due complicanze è strettamente correlato con l’intensità’ delle dosi dei farmaci immunosoppressori assunti e quindi, è andato diminuendo sempre di più in epoche recenti dato il raffinamento della terapia per la prevenzione del rigetto. Inoltre, le dosi massime di immunosoppressori si assumono di regola, nel periodo di tempo che va dal primo al sesto mese post-trapianto. E’ proprio in questo periodo che è massimo il rischio di contrarre infezioni. Superato tale periodo il rischio persiste ma è notevolmente ridotto. D: è vero che sono “pericolosi”? E quanto? R: Pericolosi se usati in maniera irresponsabile o con superficialità. Se usati come prescritto dal medico il pericolo è contenuto e ovviamente, calcolato. I pazienti trapiantati devono capire che assumere i farmaci immunosoppressori rappresenta un impegno e deve essere fatto seguendo regole molto precise. D: che precauzioni deve prendere un trapiantato per minimizzare i rischi degli immunosoppressori? R: Fondamentalmente vivere secondo norme igieniche precise (come ad esempio non fumare, fare attività fisica consentita e seguire un’alimentazione corretta). Usare creme di protezione solare ogni qualvolta ci si espone al sole, quindi sempre durante i periodi assolati e non solo quando si va al mare. Si tratta di semplice prevenzione dei tumori cutanei; regola a cui tutti, trapiantati e non, devono attenersi. D: dai vostri dati, quanto incidono sulla qualità di vita dei pazienti gli immunosoppressori? R: Poco. La qualità di vita è minimamente influenzata dall’assunzione giornaliera di farmaci. Il rischio di complicanze è comunque contenuto. Indubbiamente un paziente immunodepresso nell’arco della sua vita è affetto da più di un’infezione che contrae perché immunodepresso. I pazienti pentiti di aver eseguito un trapianto perché la qualità di vita è peggiorata sono una minoranza. Si tratta spesso di pazienti in cui le indicazioni sono state verosimilmente poste in maniera inesatta al momento del trapianto o ai quali non sono state spiegate a fondo tutte le problematiche. D: il trapianto di pancreas può essere un’opzione terapeutica anche nel diabete tipo 2? R: Raramente. Nel diabete di tipo II esiste una fase iniziale in cui il paziente produce ancora insulina ma questa non viene utilizzata in maniera ottimale dalle cellule dell’organismo. In questa fase è ovviamente inutile sostituire la funzione delle cellule beta (produttrici d’insulina) con un trapianto. In una fase più tardiva della malattia invece la funzione delle cellule beta si esaurisce ed il paziente diabetico di tipo II non produce più insulina. In questa fase può avere senso sostituire la funzione delle cellule beta con un trapianto. Resta il fatto però che questa fase di solito viene raggiunta dai pazienti diabetici di tipo II in un’età in cui il rischio chirurgico di un trapianto di pancreas non è più sostenibile. Conviene allora sostituire la funzione delle cellule beta con un trapianto di insule (in cui il rischio chirurgico è praticamente assente), sempre che sussistano le indicazioni ad eseguirlo. D: quali sono i possibili prossimi progressi nei trapianti di pancreas? R: I trapianti di pancreas hanno raggiunto ormai un ottimo livello di tecnica chirurgica e d’assistenza peri-operatoria. Sicuramente sviluppi si avranno nel campo dell’immunologia con comprensione sempre più accurata del fenomeno del rigetto e delle strategie per prevenirlo. Cosi come per gli altri trapianti anche quello di pancreas si gioverà di sviluppi in questo settore con il possibile sviluppo della tolleranza d’organo specifica. Potremmo distinguere, infatti, due settori di sviluppo futuri. Il primo riguarda la capacità di prolungare la sopravvivenza dell’organo trapiantato prevenendo e contrastando il fenomeno del rigetto cronico con l’uso di farmaci immunosoppressori perfezionati. Il secondo riguarda la capacità di far sopravvivere l’organo trapiantato senza ricorrere a farmaci, indurre cioè una tolleranza specifica per l’organo trapiantato. D: Dr Verzaro, cosa sentirebbe di dire ad un diabetico, che dopo aver letto le sue risposte, stia pensando ad un trapianto di pancreas? R: Di pensare al futuro con possibile serenità e fiducia. Innanzitutto in Italia esistono centri trapianto di pancreas ottimi e tanti altri si stanno organizzando per rispondere alle problematiche dei tanti pazienti diabetici presenti in Italia. Le donazioni sono in aumento e, sebbene impossibile far fronte a tutta la popolazione diabetica, sempre più diabetici potranno essere trapiantati. La tecnica chirurgica e l’assistenza peri-operatoria nel trapianto di pancreas sono ormai perfezionate e nuovi farmaci immunosoppressori renderanno sempre più lontano il fenomeno del rigetto e delle complicanze da immunosoppressione. Tutto questo però non deve essere tradotto in una mancanza d’impegno (da parte del paziente e del suo diabetologo) in attesa di un trapianto. Anzi è vero proprio il contrario. Il diabete verrà sconfitto un giorno. Questo è quello che dico serenamente ai miei pazienti: farsi trovare all’appuntamento della vittoria definitiva sul diabete con il minor numero di complicanze possibili. Vale a dire sano, magari solo un po’ più dolce degli altri! 10 marzo 2006 |
Daniela D’Onofrio
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