Il trapianto di staminali nei pazienti con diabete per produrre insulina sembra funzionare
Uno, due e tre. Nel giro di due mesi sono arrivate ben tre conferme a riprova che la strada è percorribile. La strada è quella del trapianto di cellule staminali in pazienti con diabete di tipo 1 per ristabilire in vivo la produzione di insulina. E liberarli così, potenzialmente, dalle iniezioni di insulina per sempre.
Nel diabete di tipo 1 le cellule che producono l’insulina, nelle isole di Langerhans, sono distrutte e l’ormone mancante deve essere fornito dall’esterno tramite iniezioni. Anche i sistemi più moderni e automatizzati, come il pancreas artificiale (una reale opzione terapeutica ormai), hanno dei limiti. “Parliamo comunque di strumenti tecnologici, e come tali devono essere accettati dai pazienti, e non è scontato che lo siano – racconta a Wired Federico Bertuzzi, direttore di Diabetologia all’Ospedale Niguarda di Milano ed esperto del Gruppo Associazione Medici Diabetologi (AMD) Diabete tipo 1 e Transizione – Rilasciano insulina nel sottocute, una sede non fisiologica, e soprattutto non lo liberano dalle iniezioni. Di fatto un trapianto di staminali, in grado di riprodurre la produzione in vivo dell’insulina rappresenterebbe la cura biologica del diabete”.
Al pari di quanto promettono i trapianti di isole pancreatiche da donatore, ma non facili da eseguire (dove permessi), in primis per la mancanza di donatori adeguati. Di passi avanti comunque, dopo anni di ricerca sul campo, ne sono stati fatti per le staminali. Gli ultimi, promettenti, sono stati annunciati proprio in questi giorni.
Parliamo dei risultati annunciati, congiuntamente, sulle pagine di due riviste scientifiche: Cell Stem Cell e Cell Reports Medicine. I primi, come li presentano i loro autori, in cui si dimostra che staminali differenziate in cellule pancreatiche, trapiantate nei pazienti, non solo sopravvivono ma riescono a produrre insulina in risposta ai livelli di glucosio. In sostanza si “attivano” dopo i pasti.
I dati riguardano un piccolo gruppo di pazienti con diabete di tipo 1 (15 in uno studio, 17 nell’altro), cui sono stati impiantati sottocute delle piccole capsule contenenti le staminali cosiddetti aperte, ovvero che permettono la vascolarizzazione delle cellule contenute al loro interno. “Le capsule sono fondamentali – spiega Bertuzzi –. Servono a contenere le cellule e a favorirne l’attecchimento nell’ospite. Ma devono anche farle sopravvivere, e possono farlo in due modi. In un caso sono completamente chiuse, immuno-isolanti, ovvero non consentono la vascolarizzazione, ma sono comunque sviluppate per permettere il passaggio di ossigeno, glucosio e insulina. In un altro caso permettono l’ingresso dei vasi, e delle sostanze trasportate, ma questo ne riduce il potere isolante dal sistema immunitario e richiede che i loro trapianti siano associati a terapia immunosoppressiva”.
Le capsule trapiantate nei pazienti nei due studi sono di quest’ultimo tipo (parliamo di device di grandezza variabile dalla dimensione di una monetina a circa tre volte tanto, contenenti perciò diverse quantità di cellule). “Le capsule possono essere fatte di materiali diversi, tanto di sostanza proteiche che di materiali sintetici”, aggiunge Bertuzzi.
I risultati osservati dai ricercatori a distanza di mesi dal trapianto sono stati incoraggianti. Le cellule trapiantate nei pazienti riescono non solo a sopravvivere (non scontato), ma sono anche funzionali, ovvero riescono a produrre insulina in risposta ai pasti. Sono in grado cioè di sentire quando ce ne è bisogno. In un caso, nel lavoro guidato da Timothy Kieffer della University of British Columbia, i pazienti hanno ridotto il bisogno di insulina di circa il 20% nel corso di un anno, e sono riusciti a passare più tempo nei range di glucosio ideali ed erano nel complesso ben tollerate.
Dopo aver prelevato le capsule dai pazienti i ricercatori hanno infatti confermato la presenza di cellule di tipo beta. Nell’altro studio, guidato da Howard Foyt di ViaCyte (ViaCyte produce le capsule) nel corso di un follow-up durato un anno, l’espressione di insulina è stata osservata in circa due terzi degli impianti. In entrambi i casi, è bene ribadirlo, si tratta di prove di concetto. Non parliamo di pazienti che sono guariti dal diabete, né che con questi trapianti sono riusciti a controllare la malattia, non ancora.
I limiti ci sono e i primi a non nasconderli sono gli stessi autori della ricerca: parliamo dei risultati osservati in una manciata di persone, senza controlli, i dati sono molto eterogenei, non si sono osservati effetti terapeutici, e non è noto quale sia il modo migliore di somministrare le capsule, né le dosi di cellule da impiantare, così come gli impatti della terapia immunosoppressiva, non priva di importanti effetti collaterali (come osservato in alcuni pazienti).
“Ma abbiamo evidenze che queste cellule trapiantate non solo sopravvivono, ma possono avere anche un effetto clinico, sebbene modesto. Sentono il glucosio e questo è importante – commenta Bertuzzi – ma il dato più importante è che prove di efficacia arrivano da studi diversi, condotti in centri e con protocolli diversi”. L’esperto ricorda infatti che assieme ai dati presentati oggi, a ottobre la Vertex aveva annunciato i risultati incoraggianti del primo paziente a ricevere la terapia cellulare sostitutiva (sempre con cellule capaci di produrre insulina, ma somministrate per infusione nella vena epatica).
“Oggi abbiamo un dato di funzione, sappiamo ovvero che questa strada può funzionare, ma ci sono molti aspetti da perfezionare, non solo in termini di aumento di efficacia, ma in primisi di sicurezza – continua Bertuzzi -. L’ideale infatti sarebbe liberare i pazienti dalla terapia immunosoppressiva, magari rendendo le cellule trapiantate immuno-invisibili, togliendo loro quei marcatori che permettono di essere riconosciute come estranee e rigettate”.
Tra i nodi da sciogliere ci sono anche le modalità di somministrazione (oltre al sottocute, e nel fegato, l’idea è quella di trapiantare capsule anche nell’addome) e la scelta delle cellule da trapiantare: “Le cellule utilizzate in questi studi sono infatti derivate da staminali embrionali. Un’alternativa potrebbe essere fare ricorso alle cellule staminali indotte, ma in questo caso rimangono da risolvere i problemi di sicurezza legati alla possibili trasformazioni neoplastiche associate al loro utilizzo”. Ma è innegabile, scrivono Eelco J.P. de Koning e Françoise Carlotti in un pezzo di commento su Cell Stem Cell, che sia un periodo stimolante per la terapia cellulare sostitutiva:“È finalmente iniziata l’era delle applicazioni cliniche della terapia sostitutiva delle isole pancreatiche a base di cellule staminali per il diabete”.