Le cellule che curano. Ecco come tratteremo il diabete di tipo 1
Il campo delle terapie cellulari per il trattamento del diabete di tipo 1 è in rapida evoluzione e una nuova entusiasmante era è già iniziata. La speranza è di poter disporre a breve di fonti illimitate di cellule produttrici di insulina, alternative a quelle dei donatori, utilizzate da tempo per i trapianti.
“Le migliori candidate per la produzione di cellule beta – ricorda il Professor Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute del San Raffaele di Milano e uno dei maggior esperti mondiali sull’argomento – sono al momento le cellule staminali umane pluripotenti, che hanno un potenziale illimitato di divisione e differenziazione. Diversi laboratori hanno sviluppato protocolli per la differenziazione delle cellule pluripotenti in cellule beta e un grande sforzo negli ultimi anni si è concentrato sullo sviluppo di prodotti cellulari con un buon profilo di sicurezza (capacità di non generare tumori) che ne consenta l’applicazione clinica”. Attualmente sono registrati 6 studi clinici che utilizzano cellule staminali pluripotenti umane per la terapia del diabete di tipo 1 e i primi pazienti nei quali sono state impiantate hanno presentato un evidente beneficio clinico. “In particolare – prosegue il professor Piemonti – proprio quest’anno è stata ottenuta per la prima volta l’insulino-indipendenza nell’uomo. Nel mese di ottobre è prevista la sottomissione alle agenzie regolatorie dei Paesi europei (Italia compresa) per le prime sperimentazioni nell’uomo. Inoltre, sono in fase di valutazione diverse strategie per ridurre o evitare il rigetto immunitario tra le quali la generazione di cellule staminali pluripotenti universalmente compatibili, perché rese ‘invisibili’ al sistema immunitario (silenziando o eliminando geni HLA o esprimendo geni che codificano per molecole immunosoppressive). Un’altra strategia di affiancamento al trapianto di staminali, riguarda lo sviluppo di regimi immunosoppressivi blandi (sufficienti però a evitare il rigetto), il miglioramento dell’incapsulamento/contenimento del prodotto cellulare e la creazione di un’aplobanca di linee GMP di cellule staminali. Certo, una cura definitiva per il diabete ha ancora bisogno di tempo, ma molte novità entusiasmanti ci stanno mostrando un chiaro percorso da seguire”.
Oltre alle cellule beta da donatore, oggi si dispone di diverse fonti alternative. Le tre grandi categorie sono: cellule staminali pluripotenti, cellule provenienti da maiali transgeniche e la cosiddetta ‘complementazione della blastocisti’, in pratica la creazione di un animale ‘chimera’ nel quale viene fatto sviluppare un organo umano, da utilizzare in seguito per il trapianto.“Le cellule produttrici di insulina del maiale – commenta il professor Piemonti – sono molto interessanti perché questa insulina differisce da quella umana per un solo aminoacido; in passato peraltro veniva usata in terapia, prima che arrivasse quella umana”. Naturalmente le reazioni di rigetto contro questi tessuti di origine animale sono un problema e non facili da tenere sotto controllo; per questo sono allo studio attività di modificazione genetica degli animali per poter ottenere cellule ‘invisibili’ al nostro sistema immunitario.“Le cellule staminali pluripotenti – prosegue Piemonti – sono al momento le migliori per la terapia del diabete. Due le fonti principali ideali per caratteristiche di qualità e quantità: a) quelle che derivanti dall’embrione b) le cellule ‘riprogrammate’, frutto di una grande scoperta che ha valso a Yamanaka il premio Nobel”.
La caratteristica specifica delle cellule embrionali, cioè quella di poter dar vita a tutti i tessuti, è infatti una funzione che può essere acquisita da qualsiasi cellula del nostro corpo, a patto che venga ‘attivata’. “in questo modo – spiega il professor Piemonti – una cellula della pelle può acquisire le stesse caratteristiche di una cellula pluripotente di origine embrionale (si chiamano cellule staminali pluripotenti ‘indotte’); da queste è possibile poi ottenere cellule produttrici di insulina, come è stato fatto in alcuni trial clinici. La prossima frontiera sarà di far ‘ringiovanire’ parte di queste cellule ‘in vivo’ (cioè direttamente nell’organismo) per ricreare direttamente all’interno del corpo l’organo insufficiente, ad esempio il pancreas (questo reprogramming in vivo è stato fatto nell’animale, ma non ancora nell’uomo). Bisogna essere prudenti naturalmente perché c’è sempre il rischio che, giocando con l’identità delle cellule, possa svilupparsi un tumore. Questo però è un problema del reprogramming in vivo, ma non del trapianto di staminali pluripotenti perché prima del trapianto ne possiamo controllare la stabilità genetica”.
L’ultima fonte di cellule, al momento quella più remota come possibilità è la ‘complementazione della blastocisti’, una tecnica che permette di ‘costruire’ in laboratorio un animale dotato di organi costruiti con cellule umane, attraverso il trasferimento di cellule staminali pluripotenti, durante il processo di embriogenesi, direttamente nella blastocisti. “Sarebbero dei veri e propri organi ‘on demand’, delle chimere, per ora portate solo fino ad un certo grado di sviluppo, senza far sviluppare del tutto l’animale. Al momento si tratta di una tecnica molto inefficiente e che pone grandi problemi etici. La ricerca in questo campo per il momento è tutta concentrata in un paio di laboratori nel mondo, negli Usa e in Giappone”.
Gli studi in corso. Tornando dal mondo delle possibilità future alla realtà attuale, al momento sono registrati nel mondo 6 studi clinici sulle staminali pluripotenti umane (Usa e Canada) e un solo studio in Europa, registrato da un consorzio del quale fanno parte Francia, Belgio, Olanda, Svizzera ed Italia. Nel 2018 è stato impiantato con cellule progenitrici ottenute da staminali pluripotenti il primo paziente in Europa (nel 2014 negli Usa). “Finora – ricorda il professor Piemonti – il risultato clinico più importante è stato ottenuto in un paziente americano, nel quale è stato dimostrato che le cellule non si trasformano (in tumore), che a distanza di 1-2 anni dall’impianto sono ancora vive, che una volta impiantate maturano e producono insulina. Il tutto ha portato ad evidenti benefici clinici (riduzione del fabbisogno insulinico, aumento del tempo della glicemia in range e miglioramento dell’emoglobina glicata). I primi tentativi sono stati fatti con cellule progenitrici che maturavano lentamente in vivo e che venivano impiantate sottocute all’interno di un device grande come una carta di credito. Dallo scorso anno è partito un secondo prodotto cellulare derivato da staminali pluripotenti che viene infuso endovena nella vena porta del fegato (come si fa nel trapianto di isole da donatore) e non più impiantato sottocute. Per ora con questo protocollo di fase 1, iniziato lo scorso anno, sono stati trattati tre pazienti; il primo è diventato insulino-indipendente, mentre gli altri due hanno ridotto il fabbisogno insulinico”.
Questo trial partirà a breve anche in Europa. Saranno sei i gruppi impegnati nel progetto, per l’Italia il San Raffaele. “Prevediamo di reclutare il primo paziente entro la metà dell’anno prossimo; è destinato a pazienti con diabete non controllato (che invece di fare il trapianto di isole, farebbero il trapianto di queste cellule), ma devono fare immunosoppressione. Tuttavia, entro la fine di quest’anno, potremmo avere la possibilità di sottomettere un altro protocollo che prevede l’impianto di queste cellule (rese ‘invisibili’ al sistema immunitario), senza necessità dunque di immunosoppressione”.
Abbiamo dunque ‘imparato’ a produrre cellule produttrici di insulina in laboratorio e quindi in futuro potremmo non aver più bisogno di ricorrere ai donatori d’organo; da questi trial preliminari inoltre sono state ottenute le prove di principio che queste cellule sono in grado di funzionare al punto da rendere il soggetto insulino-indipendente. “La scommessa di oggi – conclude il professor Piemonti – è di poterle utilizzare senza gli immunosoppressori. A questo riguardo si stanno esplorando alcune strade:
1) mettere le cellule all’interno di un ‘contenitore’ che le isoli e le protegga dall’attacco del sistema immunitario;
2) modificarle geneticamente, rendendole invisibili al sistema immunitario (silenziando alcuni geni e inserendone altri che le rendono invisibili al sistema immunitario);
3) creare linee di cellule staminali pluripotenti da soggetti che siano come HLA identici (è come trovare nel mondo un donatore completamente compatibile) e creare una ‘banca’ di queste linee per le principali categorie di HLA”.
Ma quest’ultimo punto è per ora solo wishful thinking.
Tratto dal comunicato stampa n.3 del 123° congresso della Società Italiana di Medicina Interna SIMI
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