Microalbuminuria e rischio cardiovascolare
L’Organizzazione mondiale della Sanità stima che siano circa 180 milioni le persone in tutto il mondo affette da diabete mellito di tipo 2… …e prevede che entro il 2030 i diabetici diventeranno 370 milioni (1). Questa “epidemia” costituirà sicuramente un problema socio-sanitario globale, anche perché la malattia appare in età sempre più precoce, tanto che il diabete di tipo 2 si riscontra sempre più frequentemente anche in adolescenti (2). Si stima che la diagnosi di diabete a 40 anni di età si associa a una riduzione di più di 10 anni della spettanza di vita (3). Questo perché la durata del diabete è uno dei fattori principali che determinano l’occorrenza di complicazioni micro- e macrovascolari. E’ pertanto ovvio che questa situazione comporterà un enorme costo socio-sanitario anche ai paesi più avanzati (4-6). Tra le complicazioni più temibili del diabete gioca un ruolo centrale la nefropatia. Circa un terzo delle persone affette da diabete mellito manifesta, nel corso della propria malattia, danni renali che non solo possono portare fino allo stadio terminale della nefropatia diabetica, ma anche a un netto aumento del già elevato rischio cardiovascolare associato alla malattia diabetica. Ormai in molti paesi la maggior parte dei pazienti che giungono alla dialisi sono diabetici di tipo 2 (8-9). Il significato della microalbuminuria La microalbuminuria non solo caratterizza la storia naturale della nefropatia diabetica, ma deve anche essere considerata un fattore di rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare indipendente dalla presenza degli altri fattori di rischio cardiovascolari. Di recente appare inoltre sempre più chiaro come la microalbuminuria costituisca un fattore di rischio cardiovascolare sia nei pazienti ipertesi sia nei soggetti apparentemente sani (10-12). Molte evidenze epidemiologiche e cliniche offrono chiare indicazioni allo specialista e al medico di medicina generale non solo per il trattamento, ma anche per la prevenzione della microalbuminuria, al fine di ridurne la progressione a nefropatia terminale e gli eventi cardiovascolari. Quello che sta emergendo in letteratura è che l’associazione tra l’escrezione renale di albumina col rischio “cardio-renale” è continua, così come è continua la relazione tra pressione arteriosa e rischio cardiovascolare, senza evidenza di un livello soglia sotto il quale il rischio è azzerato (13). Le attuali evidenze dimostrano infatti che il rischio associato all’albuminuria è già presente anche ai livelli al di sopra della mediana della normalità, quindi ben prima dei livelli tradizionali che definiscono la microalbuminuria (14-15). Questa assenza di un valore-soglia per la definizione di un livello anormale di albuminuria sta portando la comunità diabetologia e nefrologica ad abbandonare o meglio a ridefinire il concetto di “microalbuminuria”. Il termine “microalbuminuria” è stato coniato originariamente da Viberti e Svendsen che avevano identificato un valore superiore a 20 mcg/min come adatto a definire il maggiore rischio di sviluppo futuro di nefropatia diabetica dapprima nel diabete di tipo 1 e successivamente nel diabete di tipo 2 (16-17). Negli ultimi anni è emerso invece chiaramente come aumentati livelli di albuminuria, ancora però nei cosiddetti limiti di normalità (10-19 mcg/min) si associno a un aumentato rischio di sviluppare microalbuminuria e successivamente nefropatia manifesta, sia nel diabete di tipo 1 sia di tipo 2 (15, 18). Lo stesso è stato anche osservato per quanto riguarda il rischio cardiovascolare nella popolazione non diabetica. Esiste una relazione continua tra escrezione urinaria di albumina e rischio di mortalità totale e cardiovascolare anche nel range della normoalbuminuria. Il rischio associato all’aumentata albuminuria appare indipendente dagli altri fattori di rischio tradizionale, pertanto questo rafforza l’ipotesi che l’albuminuria rifletta un meccanismo autonomo di danno vascolare (19). L’osservazione che la mortalità aumenta anche in presenza di livelli di albuminuria ancora nei limiti di normalità ha notevoli implicazioni cliniche. Innanzitutto l’esame delle urine standard non è in grado di rilevare questa anormalità e si impone una valutazione specifica dell’albuminuria in tutti i soggetti per i quali è indicata la stratificazione del rischio cardiovascolare. Il secondo – e certo più rilevante – motivo per dosare l’escrezione urinaria di albumina è il riscontro che una riduzione della stessa si associa a una migliore prognosi renale e cardiovascolare sia nel diabete sia nei soggetti non diabetici (19-21). Di converso, l’aumento dell’escrezione urinaria di albumina nel tempo predice una peggiore prognosi cardiovascolare. Questo dato dimostra quindi che l’albuminuria può essere un buon indicatore di efficacia del trattamento in un dato individuo. Se la terapia impostata riduce l’albuminuria anche nel breve termine, allora è prevedibile un efficace intervento di protezione cardiorenale. Al contrario, la mancata riduzione dell’albuminuria permette di identificare l’individuo non responder che, essendo a maggior rischio di eventi, deve pertanto essere trattato il più aggressivamente possibile. E’ probabile che l’aumento dell’escrezione di albumina, più che un danno renale, rifletta una diffusa alterazione del circolo sistemico. In particolare sembra essere un marker dell’entità della disfunzione endoteliale, sempre più emergente quale meccanismo patogenetico dell’aterosclerosi. Il nostro gruppo ha anche confermato in un’ampia coorte di pazienti di tipo 2 (22) come l’insulino-resistenza si associ in modo significativo alla presenza di microalbuminuria, indipendentemente da fattori confondenti qual il controllo glicemico, il peso, la pressione arteriosa e l’assetto lipidico. In altre parole i pazienti diabetici con un maggior grado di insulino-resistenza sono quelli che più facilmente sviluppano nefropatia diabetica. L’insulino-resistenza, quindi, non solo gioca un ruolo importante nello sviluppo delle complicazioni macro-, ma anche in quelle microvascolari. A questo proposito è da rilevare che nel diabete di tipo 2 anche la retinopatia proliferativa si associa a una maggiore insulino-resistenza (23), che a sua volta è presente anche nei soggetti non diabetici con microalbuminuria. Si può pertanto concludere che la presenza di microalbuminuria identifica individui con insulino-resistenza, una condizione che non solo predispone al diabete mellito, ma anche a un maggior rischio di danno cardiovascolare. Come trattare la microalbuminuria? E’ ormai chiaro che nel diabetico, a parità di efficacia antipertensiva, i farmaci inibitori del sistema renina-angiotensina sono i più efficaci nel ridurre l’albuminuria. Sono risultati efficaci in tutte le fasi della nefropatia diabetica nel rallentare la progressione sia del danno renale sia cardiovascolare. Lo studio BENEDICT ha anche dimostrato che il trattamento con Ace-inibitore è in grado di prevenire la comparsa di microalbuminuria nel diabetico di tipo 2 (24). Questo studio ha anche confermato che il beneficio maggiore dall’Ace-inibitore è ottenuto dai pazienti che non hanno un buon controllo pressorio (25). Dato che solo una minoranza dei diabetici ipertesi, nonostante trattamenti multipli, riesce a ricondurre la pressione arteriosa a valori inferiori a 130/80 mmHg, appare ancora più evidente l’importanza di usare l’Ace-inibizione. Benché gli studi siano meno numerosi, l’inibizione del sistema renina-angiotensina si è rivelata efficace anche nei soggetti microalbuminurici non diabetici. In particolare, lo studio PREVEND ha dimostrato che fosinopril riduce in questi pazienti gli eventi cardiovascolari (26). Nei soggetti con proteinuria, l’uso combinato di Ace-inibitore e antagonista recettoriale dell’angiotensina II (il cosiddetto “doppio blocco”) si è dimostrato più efficace del singolo farmaco nel ridurre la progressione del danno renale. E’ ancora incerto se il doppio blocco sia più efficace anche nei soggetti con microalbuminuria o albuminuria normale-alta: i prossimi risultati dello studio ONTARGET ci dimostreranno se questa strategia è una valida opzione per la protezione d’organo nei soggetti ad alto rischio cardiovascolare. A nostro avviso, tutti i soggetti dopo i 40 anni dovrebbero essere sottoposti a screening per la presenza di microalbuminuria e, nel caso, trattati con un farmaco che inibisca il sistema renina-angiotenina. Ovviamente, essendo questi soggetti ad alto rischio cardiovascolare, nel loro trattamento devono essere usati in modo aggressivo anche tutti gli altri provvedimenti farmacologici (statine, antiaggreganti piastrinici) che possono ridurre il rischio associato.
Bibliografia
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di Roberto Trevisan gennaio 2008 |