Nuovi farmaci, trapianti e beta-cellule artificiali: nella cura del diabete il futuro è oggi
Grandi aspettative per tre nuove classi di farmaci destinate alla cura del diabete e delle malattie correlate, a cui si aggiungono nuove forme di somministrazione dell’insulina, tecniche di trapianto meglio tollerate e una beta-cellula pancreatica artificiale. Sono veramente molti gli studi in corso che aprono nuove prospettive terapeutiche per una malattia diffusissima e che fino a qualche anno fa veniva ritenuta incurabile. “È sempre più vicino il momento in cui sarà possibile modificare il corso naturale del diabete, cambiare il destino dei nostri malati e, forse, guarirli – ha affermato il prof. Enzo Bonora, ordinario di Endocrinologia dell’Università di Verona e organizzatore del triennale “Workshop on Diabetes Mellitus and Related Conditions – Novel Therapies: scientific backgrounds and clinical perspectives” in corso a Mantova – Anzi, nel caso del trapianto di pancreas, di fatto una guarigione del diabete in moltissimi casi c’è già, anche se accompagnata alla necessità di seguire la terapia anti-rigetto per il resto della vita“. Molto ci si aspetta da tre nuove classi di farmaci. “Si tratta – ha continuato Bonora – degli antagonisti degli endocannabinoidi, degli analoghi di GLP-1 e degli inibitori di DPP-4. I primi sono stati sviluppati come farmaci per l’obesità ma hanno un futuro come anti-diabetici. Gli ultimi due esercitano un’azione incretino-simili. Le incretine sono ormoni prodotti a livello delle cellule gastriche e intestinali che vengono rilasciati nella fase post-prandiale e che stimolano la secrezione di insulina e hanno effetti trofici sulle beta-cellule. Le incretine sono generalmente ridotte in chi soffre di diabete”. “I risultati degli studi clinici – ha sottolineato il prof. Michael Nauck, docente di medicina interna al Diabeteszentrum di Bat Lauterberg, in Germania – mostrano una ottima azione ipoglicemizzante di queste molecole. Gli analoghi del GLP-1, classe di cui fa parte il principio attivo Exenatide, si legano ai recettori dell’ormone, innescandone i vari effetti biologici. Mentre gli inibitori di DPP-4 come Sitagliptin e Vildagliptin, bloccano la degradazione delle incretine. Una fondata speranza è che tali farmaci possano contribuire a modificare la storia naturale del diabete di tipo 2, prolungando la sopravvivenza delle beta-cellule pancreatiche e stimolandone la rigenerazione”. Sia Exenatide che Sitagliptin sono già in commercio negli Stati Uniti e saranno presto disponibili in Italia. Anche Vildagliptin sarà disponibile presto nel nostro paese. “Nei prossimi mesi sarà disponibile anche in Europa il rimonabant, un principio attivo che agisce a livello del sistema degli endocannabinoidi – ha affermato il Prof. Luc Van Gaal, ordinario di medicina all’ospedale universitario di Anversa, in Belgio, e che durante la sua relazione presenta i risultati di quattro trial internazionali sui benefici di questo farmaco in chi è obeso e diabetico. “Gli endocannabinoidi vengono sintetizzati e rilasciati soprattutto a livello del cervello, nella zona dell’ipotalamo, e sono responsabili del desiderio di cibo, in particolare quello che fornisce gratificazione. Hanno però numerose altre azioni. Il rimonabant, bloccando il recettore degli endocannabinoidi, riduce l’appetito e fa dimagrire ma migliora anche varie funzioni metaboliche che si traducono in un calo della glicemia e dei trigliceridi e in un aumento del colesterolo HDL”. Il diabete si associa spesso ad ipertensione e l’ipertensione nel diabete è assai deleteria. Per questo viene accolta con interesse nel mondo diabetologico la disponibilità a breve di una nuova classe di farmaci antipertensivi. “Il capostipite si chiama Aliskiren ed è in grado di bloccare l’attività enzimatica della renina – ha sottolineato il prof. Michel Azizi, ordinario di medicina vascolare all’università Paris-Descartes di Parigi, che durante la sua relazione illustrerà i risultati ottenuti con l’uso di questa molecola. La renina è un enzima molto importante, perché è responsabile dell’avvio di una cascata di eventi che porta alla formazione dell’angiotensina II, uno dei più potenti ormoni vasocostrittori dell’organismo, fortemente implicato nella genesi dell’ipertensione e delle sue complicanze d’organo. “Con Aliskiren – ha continuato Azizi – si blocca tutta la cascata, si riduce la pressione e si contrastano gli effetti deleteri non solo dell’angiotensina II ma anche della stessa renina”. C’è grande attesa anche per l’insulina polmonare o inalatoria, già disponibile sul mercato americano. Per la possibilità di evitare le iniezioni, ha ricevuto un indice di gradimento molto elevato dai partecipanti ai diversi studi internazionali condotti per appurare l’efficacia del prodotto. “L’insulina è in polvere – ha evidenziato il Prof. Werner Scherbaum, docente di medicina all’ospedale universitario di Dusseldorf, Germania, dove sta conducendo studi clinici sulle vie di somministrazione “alternative” dell’insulina – viene autosomministrata con un nebulizzatore e assorbita a livello polmonare. I risultati hanno dimostrato che esercita un’eccellente effetto ipoglicemizzante sia nel diabete tipo 1 che nel diabete tipo 2. Attualmente la forma inalatoria può essere utilizzata solo per fornire l’insulina rapida necessaria in occasione dei pasti e non quella basale, ma già così permette di evitare molte o tutte le iniezioni giornaliere indispensabili alla cura in molti casi di diabete”. Ma la ricerca non si ferma allo studio di nuove soluzioni farmacologiche. Va oltre. Nella speranza di guarire il diabete, soprattutto quello di tipo 1, la forma meno diffusa, ma sicuramente più complicata da trattare perché richiede assolutamente l’uso dell’insulina. Risultati eccellenti sono stati ottenuti con i trapianti combinati di rene e pancreas e di pancreas isolato. Tanto che la tecnica è già largamente utilizzata nel mondo e in vari centri specializzati italiani. “Nella maggior parte dei casi – ha affermato il prof. Antonio Secchi, un pioniere in questo settore, associato di medicina interna all’Università Vita Salute del San Raffaele di Milano – il trapianto di pancreas viene eseguito quando è necessario il trapianto di rene per la presenza di insufficienza renale terminale ma da qualche anno si è iniziato ad eseguire trapianti isolati di pancreas in casi selezionati. L’indicazione riguarda pazienti con diabete tipo 1 e con compenso glicemico molto labile o con gravi complicanze che richiedono un’ottimizzazione del compenso glicemico o l’impossibilità per il paziente ad eseguire in maniera adeguata la terapia insulinica”. A dimostrazione del fatto che la “parte del leone” è ancora del trapianto combinato rene-pancreas c’è una recente revisione della letteratura pubblicata da Hepatobiliary and Pancreas Disease International che ha riportato i risultati osservati in circa 23 mila soggetti operati in tutto il mondo. Nell’83% dei casi l’intervento era consistito in un trapianto combinato di rene e pancreas. Decisamente positivi i risultati: la sopravvivenza dell’organo trapiantato è stata dell’85% in caso di trapianto combinato di rene-pancreas e del 76% in caso di trapianto di solo pancreas. E in questi soggetti non era più necessaria alcuna terapia insulinica per controllare il diabete. “Una sfida aperta nel settore dei trapianti è riuscire ad effettuare un efficace e duraturo trapianto di isole pancreatiche, cioè di quegli agglomerati di cellule endocrine sparse nel pancreas esocrino che contengono, fra le altre, anche le cellule che producono l’insulina – ha spiegato il prof. Thierry Berney, che sta concentrando le sue ricerche all’Università di Ginevra proprio in questa direzione – È però una sfida difficile: le isole devono provenire da una persona immuno-compatibile ed è necessario preservarne la vitalità prima del trapianto. Poi è importante che le isole, somministrate per via percutanea nella vena porta, attecchiscano bene. Infine, è cruciale che non siano rigettate e che la terapia anti-rigetto sia ben tollerata, oltre che efficace”. Successi parziali si sono già ottenuti, come provano i dati. Valgono per tutti quelli relativi all’impiego di terapie anti-rigetto maggiormente tollerate come quelle utilizzate nell’ambito del Protocollo di Edmonton, la città canadese dove è stato sviluppato. Lo studio basato su questo protocollo è stato pubblicato nel 2006 sul New England Journal of Medicine e riguardava 36 diabetici di tipo 1 trapiantati in vari centri, incluso quello di Milano del San Raffaele. A un anno dal trapianto è stata ottenuta una totale insulino-indipendenza nel 44% dei soggetti e un’importante riduzione del fabbisogno insulinico nel 28% dei diabetici. Tuttavia, a due anni dal trapianto solo il 13% dei soggetti restava insulino-dipendente. “Sono comunque dati positivi – ha sottolineato il prof. Secchi – Al di là dell’elevato tasso di insuccesso dopo due anni, resta che il trapianto si è tradotto in un miglioramento del controllo del diabete e in una riduzione delle ipoglicemie praticamente in tutti coloro che hanno partecipato allo studio, con un miglioramento deciso della qualità della vita”. A conferma di ciò, in una recente valutazione statistica dei risultati osservati nei centri americani, dove nel periodo 1999-2004 sono stati eseguiti 266 trapianti di isole pancreatiche su 138 riceventi, la percentuale di soggetti liberi da trattamento insulinico dopo un anno dal trapianto era pari al 58%, ma la frequenza di severe ipoglicemie colpiva solo il 2% dei soggetti, contro una frequenza dell’82% prima del trapianto. Ultimo, ma non meno importante obiettivo della ricerca è arrivare alla disponibilità di una beta-cellula pancreatica artificiale. In altre parole, di uno strumento facilmente impiantabile che misuri in continuo la glicemia e dispensi insulina secondo le necessità dell’organismo. “Lo aspettano in particolare i diabetici di tipo 1 – ha spiegato Bonora – perché rimpiazzerebbe l’attuale approccio terapeutico basato su multiple iniezioni giornaliere guidate da stime molto approssimative del fabbisogno insulinico, e metterebbe quindi al riparo da picchi iperglicemici legati a una stima per difetto, e da ipoglicemie dovute a stime per eccesso”. “La tecnologia dei piccoli infusori di insulina – ha chiarito il Prof. Eric Renard, endocrinologo all’Università di Montpellier, in un anticipazione della sua relazione – è decisamente migliorata negli ultimi anni e la disponibilità di analoghi dell’insulina ha perfezionato questo approccio terapeutico. Il punto debole, però, è ancora il monitoraggio continuo della glicemia. Richiede un sensore impiantabile sottocute che mantenga un’efficienza funzionale per lunghi periodi di tempo e questo purtroppo non è ancora disponibile, idealmente mesi o anni. Gli strumenti più recenti, tuttavia, si stanno avvicinando a questo nostro obiettivo”.
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11 maggio 2007 |