Osservazioni e commenti sullo studio ACCORD
Effetti dell’abbassamento intensivo del glucosio nel diabete mellito tipo 2 Nell’ultima giornata dell’annuale appuntamento dell’ American Diabetes Association , tenutosi a San Francisco dal 6 al 10 giugno 2008, sono stati presentati, contemporaneamente alla loro pubblicazione sul New England Journal of Medicine , i “deludenti” risultati dello studio ACCORD ( 1 ). Le ricadute di questo studio (precocemente interrotto per eccesso di mortalità nel braccio a controllo glicemico intensivo) meritano una riflessione approfondita. Se, da un lato, è noto che i pazienti affetti da diabete mellito tipo 2 hanno un rischio elevato di andare incontro a malattia cardiovascolare, morte improvvisa, cecità, insufficienza renale cronica, amputazioni, fratture, depressione e decadimento cognitivo ( 2 ), è anche riconosciuto (da studi prospettici epidemiologici) che l’incidenza di molte di queste condizioni è associata al livello di iperglicemia. Per esempio, l’aumento dell’1 per cento dell’emoglobina glicata è stato associato all’incremento del 18 per cento di eventi cardiovascolari ( 3 ), del 12-14 per cento del rischio di morte ( 4 ) e del 37 per cento dei rischi di retinopatia o insufficienza renale ( 5 ). Perciò andava verificata con attenzione l’ipotesi che la riduzione della glicemia e dell’HbA1c fosse in grado di diminuire gli outcome cardiovascolari, considerate anche le raccomandazioni di alcune linee guida volte alla “quasi normalizzazione” di glicemia e HbA1c. In passato, infatti, alcuni trial clinici non avevano permesso di comprendere pienamente gli effetti di un trattamento ipoglicemizzante intensivo sugli eventi cardiovascolari o sulla mortalità dei pazienti con diabete tipo 2: l’ United Kingdom Prospective Diabetes Study ( UKPDS , 6 ), per esempio, aveva dimostrato che una terapia intensiva non modificava significativamente la mortalità né la comparsa di eventi cardiovascolari, pur essendo efficace sugli end-point microvascolari. Nello studio Veterans Affairs Diabetes feasibility Trial ( VADT , 7), il trattamento ipoglicemizzante intensivo aumentava (seppur in modo non significativo) gli eventi cardiovascolari, senza differenza sulla mortalità; nell’ University Group Diabetes Program ( UGDP , 8) il gruppo in trattamento con sulfonilurea (tolbutamide) aveva mostrato una mortalità più elevata. Lo studio ACCORD, quindi, è stato specificamente disegnato per comprendere se una strategia terapeutica aggressiva volta a ottenere un valore normale di HbA1c (<6,0 per cento) potesse ridurre gli eventi cardiovascolari rispetto a strategie terapeutiche orientate a mantenere livelli di HbA1c tra 7 e 7,9 per cento in diabetici di tipo 2 di età medio-avanzata. Il riscontro di un eccesso di mortalità nel gruppo in terapia intensiva ha portato alla conclusione prematura dello studio nel febbraio 2008, 17 mesi prima del termine previsto. Lo studio multicentrico ACCORD è stato sponsorizzato dal National Heart, Lung, and Blood Institute (NHLBI) in 77 centri clinici degli Stati Uniti e del Canada. Sono stati reclutati volontari con diabete mellito tipo 2 e HbA1c =7,5 per cento, età compresa tra 40 e 79 anni e malattia cardiovascolare, oppure tra 55 e 79 anni e significativi segni di aterosclerosi, albuminuria, ipertrofia ventricolare sinistra o almeno due fattori di rischio aggiuntivi per cardiovasculopatia (dislipidemia, ipertensione arteriosa, fumo, obesità). I criteri di esclusione prevedevano episodi di ipoglicemia frequenti o gravi, indisponibilità all’autocontrollo glicemico domiciliare o alla terapia insulinica, BMI >45, creatininemia >1,5 mg/100 ml, altre patologie gravi concomitanti. Tutti i 10.251 pazienti sono stati quindi assegnati casualmente a un gruppo in terapia intensiva (target HbA1c <6,0 per cento) o terapia standard (target HbA1c 7,0-7,9 per cento). Utilizzando un doppio disegno fattoriale, 4.733 pazienti sono stati assegnati casualmente a un trattamento antipertensivo intensivo (PA sistolica <120 mmHg) o standard (<140 mmHg). Inoltre 5.518 pazienti in trattamento ipocolesterolemizzante con simvastatina sono stati casualmente trattati anche con fenofibrato o placebo. Questi studi sulla pressione arteriosa e sui lipidi sono tuttora in corso. I regimi terapeutici erano personalizzati a discrezione degli sperimentatori e delle esigenze dei pazienti sulla base del gruppo di trattamento assegnato e della risposta terapeutica. Sono stati accuratamente monitorati eventuali eventi avversi. I pazienti del gruppo intensivo sono stati valutati mensilmente per i primi quattro mesi e poi ogni due mesi, nell’intento di ridurre (in modo sicuro per il paziente stesso) l’HbA1c a valori inferiori a 6,0 per cento. I diabetici in terapia standard sono stati visitati ogni quattro mesi. Gli obiettivi da valutare erano l’evenienza di un infarto miocardico o di un ictus non fatali oppure la morte da causa cardiovascolare (per infarto, scompenso cardiaco, aritmia, interventi cardiovascolari, complicazioni cardiovascolari dopo interventi chirurgici non cardiovascolari, ictus, morte improvvisa). Sono stati valutati anche gli effetti degli interventi sulle complicazioni microvascolari, sull’ipoglicemia, sulla capacità cognitiva, sulla qualità di vita (dati non presentati nello studio pubblicato). Tutte le analisi di laboratorio sono state eseguite “in cieco”. Un comitato indipendente ha tenuto sotto controllo l’andamento dei risultati, rilevando un aumento di mortalità (per tutte le cause) nel braccio in terapia intensiva, ragion per cui lo studio, come detto, è stato precocemente interrotto (con grande rilevanza sulla stampa internazionale). Risultati I 10.251 pazienti (età media 62,2 anni, donne circa 38 per cento, durata media del diabete dieci anni), con caratteristiche cliniche simili e HbA1c iniziale media pari a 8,1 per cento sono stati assegnati casualmente a terapia intensiva o trattamento standard. La durata media del follow-up è stata di 3,5 anni. Come atteso, i due regimi terapeutici hanno portato al raggiungimento di differenti valori di HbA1c. A quattro mesi dalla randomizzazione, l’HbA1c mediana era il 6,7 per cento nel gruppo in terapia intensiva e il 7,5 per cento nel braccio in trattamento standard. A un anno, valori mediani stabili di HbA1c (rispettivamente di 6,4 e 7,5 per cento) sono stati mantenuti nei due gruppi per tutto il periodo di follow-up. I livelli più bassi di HbA1c erano associati a un maggiore utilizzo di farmaci ipoglicemizzanti di ogni classe (insulina compresa). I pazienti nel braccio intensivo hanno mostrato maggiore frequenza di ipoglicemia, maggiore aumento di peso e ritenzione idrica e più frequente richiesta di assistenza medica. Da segnalare che un minor numero di pazienti in terapia intensiva è stato trattato con ACE-inibitori (69,7 vs 71,9 per cento, p=0,02). Ciononostante, la PAO media era leggermente minore nel gruppo in terapia intensiva. Durante il periodo di intervento, l’outcome composito primario (infarto miocardico non fatale, ictus non fatale o morte cardiovascolare) ha colpito 723 pazienti, con 460 decessi per tutte le cause, con una differenza tra i due gruppi che ha iniziato a evidenziarsi dopo tre anni. Questo trend non è risultato significativo (p=0,16). Inoltre, nel gruppo in terapia intensiva l’incidenza di infarto miocardico non fatale è risultata minore rispetto al gruppo in terapia standard, mentre il tasso di mortalità cardiovascolare è stato maggiore (p=0,02). Non ci sono state differenze nell’incidenza di ictus non fatale, mentre anche il tasso di mortalità per tutte le cause è risultato maggiore nel gruppo in terapia intensiva. I tassi di mortalità dei due gruppi iniziano a differenziarsi dopo 1 anno e tale differenza persiste per tutto il periodo di osservazione. Per quanto riguarda invece l’analisi dei sottogruppi, si può notare che pazienti nel braccio intensivo senza precedenti patologie cardiovascolari o con HbA1c pre-randomizzazione =8,0 per cento possono avere meno eventi cardiovascolari fatali o non fatali rispetto ai pazienti del gruppo standard. L’analisi degli episodi di ipoglicemia grave (dopo la randomizzazione), il diverso utilizzo di farmaci (compreso rosiglitazone), i cambiamenti del peso corporeo o altri fattori non spiegano le riscontrate differenze di mortalità. Osservando sempre l’analisi dei sottogruppi, per quanto riguarda la morte per ogni causa, si può osservare come il trattamento standard risulti sempre superiore a quello intensivo, specie per pazienti di età inferiore ai 65 anni e con HbA1c iniziale elevata. Conclusioni Questi risultati mostrano che un trattamento ipoglicemizzante intensivo personalizzato (finalizzato a ridurre l’HbA1c a valori <6,0 per cento (valore medio raggiunto 6,4 per cento) aumenta il rischio relativo di mortalità per ogni causa del 22 per cento dopo 3,5 anni rispetto a una strategia meno aggressiva, volta a mantenere l’HbA1c a valori compresi fra 7,0 e 7,9 per cento (valore medio raggiunto 7,5 per cento). In pratica si osserva un decesso in più ogni 95 pazienti trattati per 3,5 anni , ma questo studio non è stato disegnato per comprendere quale componente della strategia di intervento possa essere responsabile di questi risultati, e le analisi effettuate non hanno permesso di giungere a una chiara spiegazione di tale aumentata mortalità. Tra i fattori potenzialmente causali: l’entità e la rapidità di riduzione dell’HbA1c; il maggior numero di farmaci/paziente utilizzati nel gruppo terapia intensiva o le loro interazioni farmacologiche; il maggior numero di ipoglicemie. Le differenze di mortalità sono emerse 1-2 anni dopo la randomizzazione, proseguendo nonostante una riduzione degli infarti miocardici non fatali osservabile al terzo anno. Gli autori ritengono che, se la terapia ipoglicemizzante intensiva comportasse un qualche beneficio cardiovascolare, si dovrebbero attendere parecchi anni, durante i quali si avrebbe comunque una maggiore mortalità complessiva Ma solo ulteriori studi potranno confermare questa ipotesi. I punti di forza di questo studio rimangono l’elevato numero di pazienti ad alto rischio arruolati e il mantenimento di una differenza assoluta di HbA1c dell’1,1 per cento per 3,5 anni tra i due gruppi, ricordando poi che proseguono le valutazioni per quanto riguarda i livelli di pressione e di lipidi plasmatici. Purtroppo non si possono dedurre indicazioni su quale sia il livello ottimale di HbA1c da raggiungere, né quale sia il trattamento ideale. Inoltre non sono stati considerati diabetici senza ulteriori fattori di rischio cardiovascolare, lasciando aperta l’ipotesi che almeno alcuni sottogruppi di pazienti possano trarre benefici da un trattamento glicemico intensivo. Certamente è stata forte la delusione di chi si aspettava risultati chiarificatori: va apprezzato quindi l’invito a una certa prudenza e all’astensione da un’aggressività terapeutica fine a se stessa. Probabilmente non esiste il miglior trattamento in assoluto, ma la migliore scelta per quel determinato malato che ogni medico si trova di fronte ogni giorno e con il quale deve concordare scelte, obiettivi e strumenti terapeutici. L’abilità e la capacità del clinico stanno proprio nel comprendere, sulla base degli studi clinici, la strategia che risulterà vincente, nell’interesse della salute dei propri pazienti. Bibliografia
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di Antonio C. Bossi ottobre 2008
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