Posso, anzi potrei, combattere il diabete
Lo scorso ottobre il soldato statunitense in servizio in Afghanistan, Tre F. Porfirio, aveva solo 21 anni e una figlia in arrivo. Aveva ricevuto una sventagliata di colpi all’addome ed è stato sul punto di morire. È stato anche sul punto di diventare diabetico, della forma di diabete più grave che esista, causata dalla totale asportazione del pancreas.
A impedirlo è stato un medico italiano, che da anni lavora negli Stati Uniti ed è considerato un pioniere in questo campo: Camillo Ricordi. Negli anni ‘80 Ricordi ha ideato un modo e un macchinario per isolare le isole di Langerhans, gruppi di cellule del pancreas che regolano la glicemia. Una volta separate le cellule possono essere trapiantate nel paziente da cui sono state prelevate o in un altro e fatte attecchire nel fegato in modo che possano continuare la loro funzione. Finora non era mai stato tentato un trapianto autologo post-trauma come era il caso di Tre Porfirio.
Ricordi racconta questa vicenda, insieme ad altri due chirurghi, in una lettera pubblicata sul New England Journal of Medicine. Wired.it lo ha contattato in occasione del suo viaggio in Italia per presentare MYD – Mastering Your Diabetes, lezioni ed esercitazioni per imparare a gestire la malattia nella sua quotidianità sull’esempio dell’esperienza del Diabetes Reasearch Institute (DRI) di Miami di cui lui stesso è il direttore che si svolgeranno fino al 4 luglio con l’Ismett di Palermo e l’Ospedale Niguarda di Milano.
Dottor Ricordi, come è andata?
“Al soldato era stato asportato d’urgenza metà del pancreas in Afghanistan, poi un altro pezzo quando è arrivato, quattro giorni dopo, a Washington al Walter Reed Military Hospital. I medici di Washington mi hanno contattato d’urgenza, mentre erano ancora in sala operatoria. La porzione di pancreas ci è arrivata alle undici di sera; abbiamo processato e isolato le cellule delle isole di Langerhans per tutta la notte e alle sei della mattina le abbiamo rimandate a Washington dove le hanno impiantate nel paziente. La mia équipe e quella di Washington sono rimaste perennemente in contatto video tramite Internet, in questo modo abbiamo guidato passo passo i medici del Walter Reed. I medici hanno iniettato queste cellule come se fosse una trasfusione, mettendo un piccolo catetere in una vena intestinale che poi arriva alla vena porta. In questo modo le cellule rimangono incastrate nel labirinto intricato della rete vascolare del fegato: in pratica si ingegnerizza il fegato, che è un ottimo terreno per queste cellule perché è il primo bersaglio dell’insulina, a diventare un doppio organo. Dopo un mese queste cellule hanno riacquistato il 100 per cento della funzionalità”.
Questa tecnica potrebbe essere usata in altri pazienti diabetici?
“Potrebbe essere usata in pazienti colpiti da diabete di tipo uno, con i quali abbiamo fatto diverse sperimentazioni. Purtroppo, poiché in questo tipo di diabete le cellule del pancreas sono riconosciute come estranee e distrutte, a essere impiantate sono quasi sempre cellule eterologhe, ovvero di un donatore. In questo modo si condanna il paziente a prendere farmaci antirigetto per tutta la vita, quindi si usa solo per i casi più gravi. Attraverso diagnosi precoci si potrebbe tentare di rieducare il sistema immunitario a tollerare queste cellule che la malattia fa riconoscere come estranee e dopo questo trattamento fare il trapianto di cellule. Per quanto riguarda il diabete di tipo due stiamo procedendo con sperimentazioni di trapianto di cellule staminali per promuovere la ricreazione delle cellule responsabili della secrezione dell’insulina. In questo caso si tratterebbe di cellule del paziente stesso quindi non ci sarebbero problemi di rigetto. La sperimentazione è condotta in collaborazione con istituti di ricerca in Cina e Sudamerica, perché da noi negli Usa e in Europa è più difficile”.
Come mai?
“Nonostante negli Usa e in Europa i costi di queste malattie come quelle metaboliche, autoimmuni e cardiovascolari sono insostenibili e costantemente in crescita, esistono regolamenti che di fatto rendono impossibile sviluppare cure. Le agenzie per la regolamentazione infatti hanno imposto parametri di sicurezza e di controllo tali che sono necessari miliardi di dollari e decine di anni prima di completare una sperimentazione. Quindi la ricerca è lasciata tutta in mano a chi ha i fondi ovvero le grandi industrie farmaceutiche che non sono interessate a sviluppare cure definitive – poiché annullerebbero una grande fetta dei loro ricavi – ma a sviluppare nuovi trattamenti non risolutivi su malattie in crescita come il diabete”.
Cosa dicono questi regolamenti?
“Sono regolamenti complessi che impongono studi animali spesso in più di una specie e dimostrazione del meccanismo o effetto della terapia prima della sperimentazione clinica. Oltre a imporre costi e tempi insostenibili queste interpretazioni della legge e regolamenti sempre più complessi non introducono necessariamente garanzie di successo perché i modelli animali non riflettono ne predicono quello che succederà nell’uomo. Per cui la sperimentazione migliore sarebbe appunto quella effettuata da istituti accademici competenti in trial pilota in piccoli gruppi di pazienti volontari, con l’appropriato consenso informato. Ma senza la necessità di seguire gli stessi regolamenti che si impongono a chi mette a punto farmaci biologici o vaccini, non sono ricerche su molecole biologiche che minacciano la popolazione. Il rischio è che poi tutta la ricerca vada a finire in paesi come la Russia e la Cina dove i regolamenti sono meno rigidi, ma ci sono anche meno criteri di sicurezza e si rischia di passare da un eccesso all’altro. Non è un problema di legge. Le leggi non sono così specifiche ma indicano il principio che si deve seguire: fornire la cura migliore possibile al paziente, con le maggiori garanzie e protezione. Tutte le regole, le fasi e i parametri da seguire obbligatoriamente li indica l’agenzia. Fda ed Emea si sono trasformate in macchine da regolamento. Questo perché nessuno le valuta in base a quante nuove cure aiutino a sviluppare e approvare in maniera rapida ed efficace ogni anno, ma solo a quanti rischi sono evitati. In questo modo si premia la non azione; bloccare al massimo per evitare problemi futuri, quindi meglio non fare niente, non permettere niente”.
Per esempio?
“Per esempio, l’intervento a Tre Porfirio: io non avevo in teoria il permesso di farlo, perché era un intervento mai provato prima, non c’erano sperimentazioni cliniche, permessi da parte della Fda. Quindi l’ospedale mi ha detto che sarebbe stato meglio evitare. Il timore era che se qualcosa fosse andato male l’ospedale e io saremmo stati denunciati per cattiva practice. Per non correre rischi il medico è scoraggiato ad agire. Ma anche il ricercatore. Abbiamo chiesto un permesso alla Fda per fare uno studio clinico sulle cellule staminali e abbiamo aspettato due anni. Nel frattempo in Cina abbiamo già completato la sperimentazione su duecento pazienti, e quel permesso non ci serve più. L’unico modo è andare avanti grazie alle collaborazioni internazionali, ma in questo modo Europa e Usa bloccano la ricerca e perdono brevetti importanti che saranno nella mani di Russia, Cina e Sud America. Con questi regolamenti il trapianto di fegato non sarebbe mai stato messo a punto, la penicillina non sarebbe mai stata usata e il vaccino contro il vaiolo mai realizzato”.
Un quadro poco rassicurante, no?
“In realtà adesso la cosa migliore da fare è guardare con ottimismo ai risultati ottenuti nella ricerca sulle staminali e sulla medicina rigenerativa. Abbiamo fatto più progressi negli ultimi tre anni che nelle precedenti tre decadi. La prossima sfida è far arrivare questi risultati nella sperimentazione e poi ancora nella pratica clinica”.
da WIRED.IT