Sei e mezzo o sette più?
Per i medici l’emoglobina glicata è il ‘numero’ di riferimento: «Circolando nel sangue l’emoglobina può entrare in contatto con delle molecole di glucosio e ‘glicarsi’, vale a dire legarsi, al glucosio stesso. Tanto più glucosio c’è nel sangue, tanto più è facile che questo avvenga.
Ciò significa che la percentuale di emoglobina glicata esprime la media dell’equilibrio glicemico non in un singolo momento ma in un due-tre mesi», spiega Antonio Maioli Castriota Scanderberch, responsabile dell’Unità Operativa Dipartimentale di Diabetologia dell’Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza. La glicata non racconta tutto, è importantissimo per esempio conoscere le variazioni che la glicemia compie nell’arco di una giornata o da un giorno all’altro, «ma è un indicatore stabile utilizzato come parametro guida da tutti gli studi effettuati negli ultimi 20 o 30 anni», continua Maioli Castriota Scanderberch, laureatosi e specializzatosi a Napoli in Endocrinologia e in Diabetologia, «insomma riassume la qualità del controllo metabolico della persona con diabete». La produzione di insulina non ‘scatta’ subito o lo fa in modo insufficiente, e inoltre aumenta la produzione di glucagone (che alza la glicemia e che il Glp-1 dovrebbe ridurre). Per effetto di questi meccanismi, la glicemia sale in modo eccessivo dopo l’assunzione del pasto comportando quei ‘picchi glicemici’ che i pazienti con diabete ben conoscono e temono. Il Glp-1 agisce anche sullo stomaco rallentando la digestione. «Questo è importante per mantenere un corretto equilibrio glicemico, perché i carboidrati dovrebbero essere metabolizzati dall’intestino in modo graduale», sottolinea Francesco Purrello, endocrinologo e docente di Medicina interna a Catania. Non a caso si raccomanda alle persone con diabete di inserire nel pasto molte fibre – che pure rallentano la digestione. «Per raggiungere questo effetto a volte si prescrivono anche dei farmaci», continua Purrello, direttore della Unità operativa complessa di Medicina Interna presso l’Ospedale Garibaldi di Catania-Nesima, «il Glp-1, rallentando lo svuotamento gastrico, rende più graduale la trasformazione dei carboidrati in glucosio nel sangue. Inoltre la precoce sensazione di ‘stomaco pieno’ fa sì che ci si senta sazi prima. Il Glp-1 ha un effetto anche sui centri che nel cervello generano o ritardano la sensazione di sazietà favorendo una minore introduzione di calorie e quindi facilitando la perdita di peso corporeo».
In sintesi ristabilendo un buon funzionamento del Glp-1 si ottengono effetti in termini sia di riduzione di emoglobina glicata, sia di peso. «Si parla mediamente, di un perdita di 3-5 chili che tende a mantenersi se non addirittura ad aumentare con il passare del tempo», spiega Del Prato, che a Pisa dirige il Centro regionale di riferimento per il diabete dell’adulto.
Che livello deve raggiungere l’emoglobina glicata?
Proviamo a fissare dei ‘paletti’: nelle persone che non hanno il diabete l’emoglobina glicata non raggiunge il 6%. Viceversa, valori superiori all’8% sono assolutamente da evitare in quanto correlati all’insorgere di complicanze micro e macrovascolari del diabete.
All’interno di questa ‘forchetta’, secondo i diabetologi europei il valore ‘target’, cioè l’obiettivo da raggiungere, è il 7%. «Queste almeno sono le indicazioni date dalle Linee guida delle società scientifiche della diabetologia italiana ed europea», spiega Olga Vaccaro, ricercatrice e docente presso il Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Università Federico II di Napoli: «Le Linee guida dell’American Diabetes Association sono più restrittive e prevedono come obiettivo il 6,5%». Come nascono questi numeri? «Non sono certo dati a caso», spiega Olga Vaccaro, «gli obiettivi nascono dall’analisi di dati relativi all’andamento della glicemia e delle complicanze in decine di migliaia di persone con diabete per periodi molto lunghi. Questi studi sono coerenti nell’indicare, soprattutto per quel che riguarda nefropatia e retinopatia, che il rischio di insorgenza o di progressione di queste complicanze è proporzionale al valore di emoglobina glicata e che questo rischio inizia a farsi sentire a livelli vicini al 7%. Per le complicanze cardiovascolari, invece, a dire il vero il rischio è quello che noi definiamo un ‘continuum’: in teoria più è bassa la glicata, minore è il rischio di infarti e ictus», continua Olga Vaccaro che dopo la specializzazione in Diabetologia a Napoli ha inoltre studiato Epidemologia e Statistica alla Scuola di Igiene di Londra ed è assistant professor anche presso il dipartimento di salute pubblica e medicina preventiva della Northwestern University Medical School di Chicago.
L’importanza del 7
I dati degli studi, sia retrospettivi sia di intervento, confermano quindi che la persona con diabete dovrebbe mantenere la percentuale di emoglobina glicata almeno entro il 7%. Anche più sotto? «Nella realtà concreta tanto più l’obiettivo è ambizioso tanto meno è facile raggiungerlo. Occorrono molti farmaci in dosaggi alti e aumenta quindi il peso degli effetti secondari. Soprattutto più è basso l’obiettivo in termini di glicata maggiore è il rischio di ipoglicemie», spiega Olga Vaccaro.
L’indicazione delle Linee guida, pertanto, va declinata nella pratica di ogni giorno, e soprattutto va adattata al singolo paziente, ponendosi obiettivi più ambiziosi (glicata 6,5 %), o anche meno nei pazienti giovani e senza complicanze clinicamente evidenti o senza storia di gravi ipoglicemie, ed obiettivi meno stringenti (glicata 7-7,5%) nei pazienti anziani o con complicanze in stato avanzato. «La terapia è il classico vestito su misura», concorda Antonio Maioli Castriota Scanderberch: «Gli obiettivi vanno declinati paziente per paziente e possono cambiare nella vita del paziente. Il caso classico è quello della donna con diabete che progetta una gravidanza e deve in quella fase portare almeno al 6,5% la sua glicata prima del concepimento e nei primi mesi di gravidanza. «In linea generale, a un giovane con diabete di tipo 1 o a una persona non anziana cui viene diagnosticato il diabete di tipo 2, si può e si deve chiedere di mantenere la glicata sotto il 7%», considera Maioli Castriota Scanderberch che è stato presidente della Sezione regionale Basilicata della Società italiana di diabetologia, «perché ha davanti a sé molti decenni di vita e su un arco di tempo così lungo solo un controllo perfetto ci mette al riparo da gravi complicanze. Viceversa una persona anziana può trovare difficile prendere tutte le medicine e le precauzioni necessarie per raggiungere quota 7%. Uno studio recente ha anche messo in luce come la naturale risposta dell’organismo all’ipoglicemia possa rappresentare uno stress per il cuore. Occorre tenere in conto l’autonomia della persona con diabete, la possibilità di praticare e di seguire certe terapie, se la persona vive da sola o è più o meno continuamente sorvegliata…», continua il primario dell’Ospedale San Carlo di Potenza, «in certi casi emoglobine glicate tra il 7 e l’8% possono risultare accettabili».
da Modusonline (n. 32-2010)