Speranza e realta’

Capita spesso di leggere notizie sulle ultime terapie, sui progressi della medicina, sulle prospettive, sulle nuove frontiere della scienza.

A volte i toni sono esageratemente ottimisti: ci danno l’illusione che tutto sara’ risolto domani, tra un mese, nel prossimo futuro, che presto saremo liberi da ogni male. E questo e’ negativo, perche’ suggerire false speranze a persone, come i malati e i loro cari, che vivono di speranza, e’ scorretto e crudele.

A volte pero’ si leggono commenti alle notizie che arrivano dal mondo della ricerca, della medicina, cosi’ pessimiste, cosi’ disfattiste, che non lasciano possibilita’ di appello. Che sembrano delle sentenze definitive, “passate in giudicato”, e questo, se possibile, e’ persino piu’ crudele. Che tristezza, che senso di oppressione e di angoscia dopo aver letto certi commenti che ci ricordano che ci vorranno anni prima che questa o quella malattia possa essere sconfitta! Che a fronte di un successo, ci sono spesso 100 sconfitte: non lo sappiamo forse gia’ da soli? Mi fanno venire in mente: “Fratello ricordati che devi morire”…

Che sarebbe la vita se non ci fosse l´ottimismo?

Non trovate che la parola “speranza” abbia un suono meraviglioso?

I pessimisti dicono “nutrirsi di false speranze”.

Io dico: “Non dovremmo alimentarci di speranza?” La mamma di un bambino malato dovrebbe “rassegnarsi” a vederlo soffrire tutta la vita senza sperare che un giorno cambiera’? Il malato di patologia cronica non dovrebbe “sperare” in una cura imminente? Chi potrebbe sopportare psicologicamente una situazione del genere senza inevitabilmente cadere in depressione? Chi spera ha un motivo per vivere, chi non ha piu’ speranze e’ gia’ morto. Prendiamo il diabete.

Io spero nella cura definitiva, e la mia non e’ una speranza dettata solo dal cuore: in Inghiltera, a Singapore e ora persino in Arabia Saudita la ricerca sulle staminali sta procedendo senza quei limiti e lacciuoli imposti in altri paesi, se Mr Bush liberalizzasse e finanziasse tale ricerca anche negli USA, forse i risultati arriverebbero prima! Per ora il diabete non si puo’ guarire, ma si puo’ curare. Ci sono molteplici opzioni, una delle piu’ sconosciute, e non solo ai pazienti, e’ il trapianto. Il trapianto non e’ “la cura”, il trapianto e’ una terapia.

Ha molti limiti (scarsita’ di organi, criteri di selezione dei pazienti, rischio chirurgico, terapie immunosoppressive pesanti). Ma ricercatori stanno studiando come “ovviare” a questi problemi: a Pittsburgh ci sono pazienti trapiantati che non stanno assumendo immunosoppressori, questo perche’ gli studi sull’immunotolleranza stanno proseguendo e continuano a dare buoni risultati. Alcuni ricercatori puntano sullo xenotrapianto, che ovvierebbe alla scarsita’ di organi: sono gia’ nati maialini geneticamente modificati dai quali poter prelevare organi e cellule da trapiantare. Altri ricercatori stanno sperimentando un trapianto meno invasivo, quale quello di sole cellule beta (trapianto di insule).

Secondo alcuni, il diabetico che chieda di accedere al trapianto “gioca col fuoco” mentre potrebbe “vivere una vita normale con le terapie tradizionali”: evidentemente il diabetico che fa questa richiesta non crede di vivere una vita normale, e se informato dei rischi, dovrebbe avere il diritto di scegliersi la propria terapia: come chi decide per Lantus piuttosto che il micro, come chi decide per l’agopuntura o l’omeopatia o la cura Di Bella. Esistono dei precisi criteri di elegibilita’ per essere immessi in lista d’attesa. Non e’ come andare al supermercato.

Quando questa richiesta provenga da un diabetico non complicato spesso suscita il dissenso, persino l’irritazione di medici e anche di altri diabetici: evidentemente questa persona non sopporta tutte le implicazioni, materiali e psicologiche, del diabete, che e’ inutile ricordare, sono molteplici. E’ cosi’ impossibile comprendere che una persona possa stancarsi e desiderare di farla finita con tutte le procedure che ben conosciamo? La stanchezza non e’ forse un sentimento umano?

Il trapianto in molte patologie e’ l’extrema ratio, viene effettuato quando non c’e’ piu’ nulla da fare (cuore, polmoni, fegato…). Non cosi’ nel caso di insufficienza renale: esiste la dialiasi, e’ una terapia sostitutiva della funzionalita’ renale, molti con la peritoneale se la fanno a casa, vivono una vita “normale” (questa e’ una affermazione che io non condivido), lavorano. Nessun nefrologo tuttavia si sognerebbe di consigliare la dialisi ad un paziente che potesse accedere ad un trapianto, visti i “rischi dell’intervento e degli immunosoppressori”. Evidentemente “i rischi non superano di gran lunga i possibili benefici”. Per il diabetico il discorso e’ persino piu’ complesso.

Accedere ad un trapianto prima di entrare in dialisi, vuol dire aumentare notevolmente le probabilita’ di successo del trapianto stesso. Sottoporsi a trapianto prima che le complicanze facciano danni irreversibili vuol dire migliorare notevolmente la qualita’ e l’aspettativa di vita del diabetico.

Insomma, non sempre il trapianto deve essere considerato “un’ultima spiaggia”. Tutti fanno il possibile per tenersi lontano da quella spiaggia: pero’ c’e’ chi ci e’ spinto dall’uragano verso quella spiaggia.

Nessuno ci vorrebbe approdare a quella spiaggia, ma se gli capita di essere nel mare in tempesta delle complicanze devastanti del diabete, quella spiaggia e’ vista come un’isola meravigliosa, come un porto sicuro dal quale salpare, a vele spiegate verso una nuova meta.

Indubbiamente trovarsi nella situazione di dover affrontare un trapianto e’ una tragedia. Ma la persona che riceve un trapianto e’ una persona fortunata: e’ una persona benedetta da Dio, e’ una persona che grazie al dono genoroso di un estraneo e all’abilita’ magistrale di medici ha davanti a se un’aspettativa di vita che altrimenti non avrebbe avuto. Non e’ fortunata: e’ fortunatissima!

Io sono la sorella di un diabetico cui sono stati trapiantati rene e pancreas: il 19 ottobre 2002 ha compiuto il suo “primo anno”. In un anno l’ho visto rinascere, ritornare alla vita con una fiducia, con una grinta che aveva perso.

L’ho visto tornare a sorridere, anzi a ridere di gusto, l’ho visto ricominciare a mangiare quando aveva fame e non quando doveva farsi l’insulina. Ho visto le sue gambe da calciatore tornare tornite e muscolose, e non piu’ gonfie e dolenti. Ho visto le dita dei suoi piedi cicatrizzarsi. La pelle del suo viso tornare morbida e liscia, non piu’ grinzosa.

Io spero che presto, prestissimo trovino una cura contro il diabete, perche’ nessuno debba piu’ soffrire come ha sofferto mio fratello, ma chi e’ nelle sue condizioni di un anno fa’ deve sapere che una speranza c’e’, anzi il trapianto non e’ una speranza: e’ una REALTA’.

 

Daniela D’Onofrio, aprile 2003