L’ADMS Onlus di Cagliari, ha chiestro tramite il suo Presidente, Michele Calvisi, al prof. Francesco Marcello, che si interessa di ” Problematiche dello sport agonistico e dell’attività fisica”, un parere sull’episodio da noi riportato in dicembre, riguardante Raffaella Porru, tennista dilettante del Tc Dolia, diabetica, ingiuriata da un giudice federale, per aver chiesto la sospensione del gioco.
Eccolo:
La recente disavventura capitata ad una tennista cagliaritana, portatrice di diabete di tipo 1, ha catalizzato l’interesse generale, grazie anche allo spazio dedicato dai media all’evento. Occorre, a mio parere, andare oltre il fatto specifico e cercare di affrontare la tematica della tutela sanitaria a 360 gradi, analizzando singolarmente ogni aspetto riguardante le diverse categorie di praticanti.
L’attività sportiva ha come caratteristica intrinseca la selettività. In ambito giovanile, ad esempio, dove l’accoglienza e la cura del processo di sviluppo motorio dovrebbero essere ricorrenti, prevale spesso la logica del risultato, con tutte le distorsioni pedagogiche che ciò comporta. Nel corso degli anni si è giustamente affermata la cultura dello sport per tutti e dell’attività fisica adattata. Sono tante le categorie di diversamente abili che si cimentano in tutte le discipline sportive, con attività regolamentate e organizzate da comitati nazionali e sovranazionali. Non sfugge all’occhio dell’osservatore attento il fatto che lo sport per i normodotati è quello più affetto da distorsioni da specializzazione precoce, cui segue un fatale precoce abbandono che le statistiche attestano impietosamente.
La persona con diabete vive l’attività sportiva, quando non ha subito condizionamenti negativi che lo hanno allontanato preventivamente dallo sport, prescindendo completamente dalla sua condizione di diabetico. Nessun allenatore del resto allontanerà mai dal campo un diabetico se questi ha qualità motorie che lasciano intravedere la prospettiva di buoni risultati. Si può affermare, anche in questo caso, che non è la sensibilità a motivare l’allenatore, bensì la prospettiva di successo. Gli atleti con diabete che hanno ottenuto risultati di livello elevato sono tantissimi, si potrebbero ricordare nomi come GARY MABBUT capitano del Totthenam e della nazionale di calcio inglese, MAMET SCHOOLS calciatore del Manchester UTD, GARY HALL nuotatore plurimedagliato a Sydney 2000, DANNY MC GRAIN calciatore del Celtic, 62 presenze in nazionale di Scozia, H. RICHARSON Tennista che vinse la Davis nel 54 e fu finalista a Wimbledon nel 1956, STEVE REDGREVE 5 ori in 5 differenti olimpiadi nel canottaggio.
È un elenco parziale cui si possono aggiungere ancora moltissimi nomi. Se in tanti hanno dato prova di poter affrontare l’agonismo di alto livello, quali sono allora le reali problematiche che coinvolgono gli operatori sportivi e coloro che stanno accanto agli atleti con diabete? La frequentazione dello sport, a tutti i livelli, suggerisce che c’è un solo modo per fronteggiare situazioni come quelle capitate alla tennista di Cagliari: la conoscenza . La consapevolezza che l’attività fisica sia un elemento basilare per mantenere la nostra salute in condizioni ottimali, è stata ulteriormente rafforzata dalle linee guida più recenti emanate dall’organizzazione mondiale della sanità. La scelta dell’agonismo va sicuramente oltre l’aspetto puramente salutistico, tuttavia scegliere lo sport agonistico è un diritto di ciascuno. I diabetici che hanno dovuto affrontare l’ansia legittima dei familiari, o del medico sportivo restio a volte a rilasciare un certificato di idoneità, sono innumerevoli. La prestazione sportiva è volta al conseguimento del massimo risultato, dal punto di vista biochimico, i meccanismi in grado di produrre energia per il muscolo, entrano in azione selettivamente. Quasi sempre lo sforzo è articolato, anaerobico e aerobico contemporaneamente o in forma intervallata, specifica per ogni disciplina, con soggetti differenti ognuno dei quali ha una sua risposta e una storia sportiva differente alle spalle.
La farmacologia è oggi in grado di garantire apporti insulinici con modalità di rilascio atte a favorire una maggiore autonomia all’atleta. L’atleta con diabete di tipo 1 insulinotrattato, può dunque affrontare la performance con serenità, non sarà la sua condizione a limitarlo, ma come per tutti gli altri atleti il successo dipenderà dalla sua motivazione, dalle sue qualità tecnico-coordinative e da quelle muscolari.
Da alcuni studi recenti emerge che l’attività sportiva di un diabetico può evolversi differentemente in relazione al periodo d’esordio della malattia. È interessante notare come gli individui che già praticano sport prima di avere il diabete, continuano allo stesso livello e a volte ad un livello superiore. Se i principali adattamenti dell’organismo al carico fisico sono già stati sviluppati, il diabete non costituisce un ostacolo. Al contrario può avere un impatto negativo verso la pratica sportiva quel diabetico che si trova ad affrontare l’agonismo e i carichi che caratterizzano l’allenamento, senza avere avuto esperienze precedenti. Se questo individuo ha superato l’adolescenza la situazione è ancora più problematica, per affrontarla adeguatamente occorre un approccio multidisciplinare dove l’atleta è soggetto attivo. Al suo fianco nel quotidiano deve esserci innanzitutto un allenatore sostenuto da una solida preparazione che scaturisce da un percorso universitario nelle scienze motorie. Con l’allenatore e l’atleta interagiscono il diabetologo e possibilmente il nutrizionista e lo psicologo. La scarsa conoscenza dei problemi è la fonte principale di comportamenti inadeguati.
Lo sport agonistico deve sempre garantire attraverso i suoi regolamenti e le persone deputate ad applicarli, la sicurezza di tutti i praticanti. Un infortunio, un malore può capitare a chiunque, atleti senza nessuna apparente patologia conclamata hanno perso la vita a volte anche per un soccorso tardivo. L’incolumità deve essere la norma. La conoscenza è dunque l’unica strada per chiunque è a contatto con gli eventi sportivi, un arbitro non meno di un allenatore.
Nello sport dei più piccoli, ad esempio, è ricorrente la frustrazione che scaturisce da un arbitraggio inadeguato, privo di qualunque buon senso pedagogico, costruito per l’atleta adulto e riproposto senza nessuna conoscenza delle priorità che l’età evolutiva richiede. Un bambino che viene maltrattato da un giudice di gara che non conosce le giuste modalità di approccio pedagogico, evento che mi è capitato di riscontrare spesso sui campi di gara, è un ulteriore esempio di assenza di professionalità e di inadeguata conoscenza dei diversi aspetti che caratterizzano l’attività sportiva.
In tutte queste situazioni colpevolizzare non serve a molto, servirebbe invece una campagna di informazione progettata adeguatamente, dove tutti gli aspetti del problema vengono affrontati con scrupolo, e competenza a vantaggio di tutti coloro che operano nel mondo dello sport.
Qualche giorno fa su un giornale a carattere nazionale è apparsa in prima pagina la notizia che a Milano al posto dell’educazione fisica una scuola superiore ha fatto frequentare alle ragazze un corso di arti marziali per contrastare il pericolo costituito dagli stupratori.
Questo può essere un rimedio contingente ma risultati migliori si otterrebbero per il futuro, se l’educazione alla corporeità, valore fondante dell’educazione fisica scolastica, iniziasse fin dalla scuola primaria. Il principio fondamentale da riaffermare con tutti i mezzi è proprio questo: il percorso dal sapere al saper fare e al saper essere inizia prestissimo ma non si conclude mai.
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