Storia medica del diabete di tipo 1
Oggi la lettura del “Case history” Type 1 diabetes, dalla prestigiosa rivista medica The Lancet di quest’anno. Il Prof. Richard Barnett inquadra quello che viviamo ogni giorno nella storia della medicina.
Il medico inglese Nicholas Culpeper nel 1649, descriveva disperato dei suoi pazienti con diabete: il loro “continuo far pipì” come “resistente a tutti i trattamenti possibili”.
Prima della scoperta dell’insulina, la morte dei pazienti era rapida e certa. Il T1D è evidentemente il sorprendente esempio della trasformazione di una diagnosi nefasta in un trattamento medico efficace, grazie all’applicazione della ricerca in clinica. La sua storia riflette la via suggerita della medicina, lontano da interventi eroici, verso un trattamento nel tempo, dall’assistenza alle cure.
Il nome.
Nell’antichità il diabete era una delle patologie associate alla perdita della vita. In una famosa frase di Aretaeus di Cappadocia, un medico greco del II secolo DC, esso definiva la malattia “uno scioglimento della carne e degli arti nelle urine “. Una visione riflessa nel suo nome greco: “Diabete”, che significa “sifone”.
Il termine hindi per il diabete “madhumeha”, malattia del “miele-urina” mostra che l’antica medicina indiana era già a conoscenza del maggiore sintomo della malattia, ossia il sapore dolce dell’urina, che sembrava essere sfuggito all’attenzione dei medici occidentali fino al 1679, quando il medico inglese Thomas Willis lo utilizzò per identificare le due forme della malattia: “mellito”, dal latino per miele ed insipido.
Incorniciato con i termini dei suoi sintomi nelle parole del clinico e storico Robert Tattersall, “una malattia mortale caratterizzata da poliuria, sete, perdita di peso progressiva e debolezza”. L’anatomo-localismo di Parigi e l’emergere della fisiologia come una disciplina radicata nel laboratorio, aveva sollevato la possibilità che le lesioni localizzate negli organi avrebbero potuto causare malattie sistemiche.
Inizialmente il fegato, come chiarì il fisiologo francese Claude Bernard, studiandone il ruolo nel metabolismo dei carboidrati.
Con la scoperta delle “Secrezioni interne” (più tardi chiamate ormoni) – nel tardo XIX secolo, i ricercatori avevano rivolto la loro attenzione alle comunicazioni tra gli organi del nostro corpo. Nel 1893 il contadino di Bernard ed il patologo Gustave-Édouard Laguesse, indicarono che un piccolo numero di grappoli cellulari nel pancreas – dal nome del loro contemporaneo tedesco Paul Langerhans, che per primo li descrisse – erano responsabili della regolazione della glicemia.
La terapia.
Se il diabete era una patologia del pancreas, come poteva questa conoscenza essere applicata nel trattamento del T1D? Nel 1889 il mauriziano fisiologo Charles Édouard Brown-Séquard propose con azzardo che il contenuto di estratti di organi interni avrebbe potuto venire usato per trattare molte malattie, tra cui diabete. Così alcuni diabetici vennero indotti ad assumere pezzi di pancreas crudo di maiale, mentre diversi ricercatori cominciarono ad identificare i componenti della secrezione interna distintiva del pancreas.
Nel 1921-22, i medici canadesi Frederick Banting e Charles Best usarono in una serie di esperimenti sui cani l’estratto ormonale del pancreas, l’insulina, era efficace in questi animali, e proposero che iniezioni di questo ormone potevano trattare il diabete negli esseri umani.
L’insulina così ed in seguito gli antibiotici, furono visti a ragione dai medici e dai pazienti come una vera bacchetta magica, in un’epoca di scoperte davvero eroiche.
Banting condivise come sappiamo nel 1923 il Premio Nobel in Fisiologia e Medicina con John Macleod, il quale aveva fornito spazio nel suo laboratorio e l’assistenza tecnica necessaria alla scoperta. Nel giro di pochi anni emerse l’idea che i diabetici avrebbero potuto godere di una vita “normale” con la giusta dose di insulina quotidiana.
Tuttavia la storia ben presto cambiò rotta a questa patologia, e ci si accorse che il T1D era, anche con l’utilizzo dell’insulina, una vera e propria malattia cronica.
Ai ricercatori, ai medici ed ai pazienti iniziarono ad affacciarsi pian piano forme di complicazioni devastanti a lungo termine, difficilmente trattabili, quali retinopatia, neuropatia, e malattie cardiovascolari. La nuova richiesta di una cura definitiva si riflettè ad esempio nella fondazione del British Diabetic Association nel 1934, e nell’emergere della diabetologia come specialità medica clinica.
Per il primo mezzo secolo della sua storia dalla scoperta dell’insulina, i diabetici vennero trattati con terapia insulinica estratta da maiale o bovino, allevati in grande numero per l’industria alimentare. La svolta solo agli inizi degli anni ’80, con l’inizio dell’utilizzo in clinica dell’insulina umana sintetica, ottenuta con tecniche di ricombinazione del DNA.
Interessante la scoperta che alcuni pazienti trovavano paradossalmente che la mancanza di impurità nell’insulina sintetica purificata poteva rendere più difficile il riconoscimento dei segni di un imminente crisi ipoglicemica.
La ricerca recente si è via via concentrata sulla difficoltà clinica di distinguere il T1D dal T2D. Contemporaneamente, gli immunologi hanno pian piano dimostrato che il T1D è il risultato di un attacco autoimmune verso le cellule β pancreatiche.
Si sono affacciati poi lo sviluppo di pompe per l’insulina ed il monitoraggio in continuo della glicemia, che hanno enormemente migliorato la terapia del diabete nelle nazioni più ricche. Purtroppo in tutto il mondo la qualità delle cure è scarsa, e generalmente poco regolare, creando seri problemi ai pazienti e sanitari in genere. Dato l’incremento continuo dei casi nel mondo di T1D, è necessario che gli studi ed i progressi fatti negli ultimi decenni trovino presto una definitiva potenziale soluzione. La ricerca ha fatto enormi passi in avanti ed adesso possiamo davvero sperare concretamente in questo, in particolare con la rigenerazione della funzione delle cellule secernenti insulina (es. trapianto di cellule, per loro generazione, differenziazione, incapsulamento), e con il blocco della distruzione delle cellule beta del pancreas alla diagnosi (es. modulatori del processo autoimmune).
In figura una giovane paziente prima (sinistra) e dopo (destra) il trattamento con insulina mostrava l’efficacia degli estratti da pancreas animale.
a cura di Gianpiero Garau