Trapianto di staminali per curare il diabete?

Secondo uno studio eseguito in Sud America in un piccolo trial clinico apparso sul Journal of the American Medical Association (vol 297, p 1568) l’11 Aprile 2007 una procedura simile ad un trapianto di midollo osseo sarebbe stata in grado di curare il diabete di tipo 1.

La procedura consiste nell’estrarre il sangue dal paziente ed isolarne le cellule staminali ematopoietiche, distruggere il sistema immunitario e altre cellule del paziente, poi reinfondere le cellule staminali ematopoietiche del paziente nel corpo per sviluppare un nuovo sistema immunitario.

Nel trial, il sistema immunitario sembra essere stato resettato o rieducato, e dopo la procedura, i sintomi del diabete erano scomparsi.
Julio Voltarelli dell’Università di Sao Paulo del Brasile e i suoi colleghi hanno coinvolto 15 pazienti, tra i 14 e i 31 anni di età, che erano stati neodiagnosticati. Tra il 60% e l’80% delle cellule produttrici insulina dei pazienti risultavano distrutte al momento della diagnosi, e tutti richiedevano insulina esogena.

I ricercatori hanno rimosso le cellule staminali del midollo osseo dei pazienti, hanno loro dato medicinali come il cytoxan per “cancellare” il sistema immunitario: senza un sistema immunitario i pazienti erano proni ad infezioni, per questo sono stati trattati con antibiotici e sono stati tenuti in isolamento. Questi pazienti non sono stati però sottoposti a trattamento radioterapico – come normalmente fanno i pazienti leucemici – così hanno avuto meno effetti collaterali e meno rischi di danneggiare gli organi.
2 settimane dopo, i pazienti hanno ricevuto la re-infusione delle proprie cellule staminali, attraverso la vena giugulare, ristabilendo il loro sistema immunitario.

La procedura, detta trapianto di cellule staminali ematopoietiche nonmieloablative autologhe, porta con sè rischi notevoli ed è solitamente stata riservata a pazienti con malattie potenzialmente mortali, come la leucemia o malattie autoimmunitarie. A causa di questi rischi non è certo se questo trial sarà approvato negli Sati Uniti.

Dei 15 pazienti, 12 non hanno più richiesto l’uso dell’insulina dopo pochi giorni dalla procedura.
La sopravvivenza senza l’impiego d’insulina e’ stata di tre anni in un caso, di 2 anni in quattro casi di molti mesi per gli altri.
Un paziente ha assunto insulina per un anno, prima di diventare insulinoindipendente, e lo è rimasto, per ora, per 5 mesi.
La media dei pazienti non ha richiesto insulina per 18 mesi, 1 paziente, per il momento, da 35 mesi.
”Potrebbe restare insulinoindipendente a vita” dice Voltarelli.

Esattamente perchè alcuni pazienti abbiano risposto al trattamento e uno no resta un mistero.
”Potrebbe essere dovuto a differenze genetiche o alla gravità dell’attacco autoimmune”, suggerisce Voltarelli.
Durante il corso del trial, un paziente ha sviluppato una polmonite, causata dagli immunosoppressori utilizzati nella procedura. 2 hanno sviluppato complicazioni, disfunzione tiroidea e menopausa precoce, ma non è chiaro se queste siano collegabili al trapianto di cellule staminali.

Il trial presenta comunque un numero di aspetti positivi.
Indica che il sistema immunitario delle persone con il diabete tipo 1 può essere resettato o rieducato, almeno per un certo periodo. E suggerisce che quando la risposta autoimmune è interrotta, i pazienti che hanno ancora delle cellule produttrici insulina (cosa comune nella maggior parte dei neodiagnosticati) possono rigenerare abbastanza cellule beta addizionali per ridurre o persino eliminare il loro bisogno di insulina esogena.

Come per tutti i nuovi trial clinici che coinvolgono nuove terapie o procedure, ci sono molti problemi che devono essere risolti, prima che questo approccio diventi disponibile su larga scala per i pazienti con diabete di tipo 1.
I rischi associati ad un trattamento altamente invasivo devono essere meglio quantificati e i benefici di questa procedura ben soppesati.
Cosa succeda esattamente nel trattamento – se il sistema immunitario sia “rieducato” o solo resettato, con il rischio che il diabete ritorni in seguito – non è chiaro.

Va poi sottolineato che i potenziali pazienti che potrebbero beneficiare di una tale procedura (visto che il trial coinvolgeva solo pazienti neodiagnosticati, che hanno comunque una quantità significativa di cellule produttrici di insulina restante) e gli effetti nel lungo periodo non sono ancora stati definiti, per il momento.

Jay Skyler, che dirige il Diabetes Research Institute at the University of Miami in Florida, negli USA, invita alla cautela, in quanto il trial non comprendeva un gruppo di controllo. Skyler aggiunge che molte persone hanno una remissione dei sintomi subito dopo essere stati diagnosticati e l’aumento della produzione di insulina rilevato tra i partecipanti allo studio potrebbe essere collegato a quello che è comunemente chiamato “luna di miele”.
Comunque, dice “il trial ha dimostrato risultati potenzialmente promettenti”.

E Voltarelli spera che questo tipo di approccio possa aiutare i pazienti diabetici di tipo 1 ad evitare alcune delle complicanze tipiche del lungo periodo, come retinopatia, nefropatia, neuropatia, causate da iperglicemia cronica.

 

 

Traduzione di Daniela D’Onofrio
liberamente tratta da JDRF
e New Scientist

12 aprile 2007